Ho letto di recente il romanzo Accabadora, di Michela Murgia. E' un bellissimo libro che consiglio anche a voi di leggere. Ne faccio una breve presentazione.Per chi vuol saperne di più: si veda il sito di Michela Murgia. Qui sopra c'è una breve intervista all'autrice (You tube)
E' così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un'altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell'anima di Bonaria Urrai." L'incipit di "Accabadora" introduce con grande maestrìa nel cuore del romanzo.
"Maria e Tzia Bonaria vivono come madre e figlia, ma la loro intesa ha il valore speciale delle cose che si sono scelte. La vecchia sarta ha visto Maria rubacchiare in un negozio, e siccome nessuno la guardava ha pensato di prenderla con sé, perché le colpe, come le persone, iniziano a esistere se qualcuno se ne accorge. E adesso avrà molto da insegnare a quella bambina cocciuta e sola: come cucire le asole, come armarsi per le guerre che l'aspettano, come imparare l'umiltà di accogliere sia la vita sia la morte." (dall'ultima di copertina).
Maria si trova a vivere una seconda vita, molto più desiderabile della prima vissuta fino a sei anni nella povera casa della sua madre naturale; Bonaria conquista con la sua disponibilità, con le sue attenzioni e con la sua fermezza il ruolo vero di madre: guida la ragazza, le fa capire il senso della vita che sta affrontando.
Tutti in paese, tranne Maria, sanno - ma nessuno lo dice apertamente perché non è cosa da dire - che Bonaria è pronta, quando è necessario, ad entrare nelle case per "portare una morte pietosa". Quando Maria scopre questro "segreto", sconvolta, le diventa ostile e non vuole più vivere con lei. Bonaria si congeda da lei ricordandole amorevolmente che " quando verrà il momento, Maria, scoprirai cose di te che non conosci ancora". E saranno poi gli accadimenti della vita a dare ragione a Bonaria.
La vicenda è ambientata, con una sola breve parentesi torinese, in Sardegna, in un piccolo paese, Soreni, che, negli anni cinquanta, mantiene tradizioni, usanze, credenze antiche. Fin dalle prime pagine del libro emerge questa presenza "religioso-pagana" nella vita quotidiana del paese: la presenza delle anime dei morti nella vita quotidiana (il gemito che proveniva dalle pietre del muretto di confine:"è qualche anima in penitenza"); la "fattura" del cane chiuso in un sacchetto di juta; la cordicella , la pietra ed il sacchetto del tentato maleficio che vengono bruciati perché "il fuoco purifica tutto"; il pane del buon augurio ridotto in pezzi da Maria quale presagio di cattivo augurio per gli sposi; le modalità del rito dell'accabadora al capezzale di Tziu Jusepi Vargiu.
In casa di Bonaria la camera di Maria è "piena di santi, tutti cattivi"; il sacro cuore ha "il dito puntato, reso visibilmente minaccioso dal peso di tre rosari sul petto zampillante"; Santa Rita è disegnata dentro l'acquasantiera, l'agnello mistico di gesso,"riccio come un cane randagio, feroce come un leone" fa mostra di sé. Quando però Bonaria si accorge che la presenza di queste immagini è fonte di paura e di insicurezza per Maria, non esita a toglierle alla sua vista. Lei fa di tutto perché Maria cresca serena, e non prevarica. Non chiede di essere chiamata "mamma", ma fa di tutto perché, eventualmente, sia Maria a volerla chiamare così. Non bamboleggia con Maria per conquistarla, le dà la possibilità di frequentare la scuola fino a quattordici anni, ben oltre la consuetudine che vuole che le ragazze al massimo imparino a far di conto ed a fare la propria firma; è sempre aperta al dialogo e non esita neppure ad essere severa, ma senza cattiveria, quando Maria, di nascosto, sottrae una parte delle mandorle preparate per fare i pabassinos. Bonaria le dà un ceffone, chiedendole se ha capito perché l'ha picchiata. "Perché ho rubato le mandorle", dice Maria."Ti ho picchiato perché mi hai detto una bugia. Le mandorle si ricomprano, ma alla bugia non c'è rimedio. Ogni volta che apri bocca per parlare, ricordati che è con la parola che Dio ha creato il mondo".
C'è un bellissimo dialogo in cui Bonaria fa capire le sue convinzioni profonde, anche se sa di non poter essere compresa, quando Maria è inorridita al pensiero che la Tzia abbia portato la morte a Nicola, un giovane di poco più anziano di Maria che non accetta più di vivere con la gamba amputata.
Maria le dice, quasi fuori di sé:
" - Se le cose devono accadere, al momento giusto accadono da sole...
- ... non sei nata e cresciuta due volte per grazia di altri, o sei così brava che hai fatto tutto da sola?... Altri hanno deciso per te allora, e altri decideranno quando servirà di farlo. Non c'è nessun vivo che arrivi al suo giorno senza aver avuto padri e madri a ogni angolo di strada, Maria, e tu dovresti saperlo più di tutti... Non mi si è mai aperto il ventre... e Dio sa se lo avrei voluto, ma ho imparato da sola che ai figli bisogna dare lo schiaffo e la carezza, e il seno, e il vino della festa, e tutto quello che serve, quando gli serve. Anche io avevo la mia parte da fare, e l'ho fatta.
- E quale parte era?
- L'ultima. Io sono stata l'ultima madre che alcuni hanno visto."
Bonaria sa a questo punto di aver perso la "fill'e anima", ma anche adesso, con l'atteggiamento di chi capisce a fondo le ragioni e i drammi degli altri, lascia fare a Maria le sue scelte, pur nella convinzione che dovrà in seguito ricredersi.
L'autrice riesce ad affrontare in modo profondo questo tema, senza semplificarlo o ridurlo ad una questione di tradizioni, di usanze ataviche, ma rendendolo attualissimo nella sua grande complessità e problematicità.
I personaggi principali del romanzo sono femminili: Bonaria, l'accabadora, con la sua alea di solennità, di mistero e di umanità; e Maria, della quale l'autrice segue l'evoluzione, prima nel periodo della "seconda nascita", poi nel rapporto con Bonaria, con Nicola e con Andrìa e nella sua particolare esperienza torinese.
I personaggi maschili o mancano, perché sono morti in guerra, o sono interessati a questioni di rivalità di confinanti, o hanno personalità meno spiccate, come Andrìa, anche se quest'ultimo opera in sè un'importante trasformazione nella parte finale o rivelano, come nel caso del parroco, un ruolo esterno, non interiorizzato. Le due protagoniste, invece, hanno una forte personalità e, specialmente Bonaria, una grande conoscenza degli uomini e del mondo ed una profonda coerenza morale. Basti pensare all'episodio in cui Bonaria è chiamata al capezzale di Jusepi Vargiu. Quando l'accabadora di rende conto che sono i familiari, e non il malato, a chiedere la morte, non esita a maledire chi l'ha chiamata.
La lingua utilizzata, pur avendo inserimenti dialettali, non è quella parlata, ma quella colta dell'autrice: Michela Murgia sa condurre la narrazione con un grande equilibrio tra l'uso della terza persona e del discorso diretto; il primo condotto spesso con accenti poetici; il secondo dà vivacità ed immediatezza alla narrazione. Non ci sono, a mio parere, cadute di tesione narrativa, se non, forse, in qualche parte della vicenda torinese, in particolare nel suo rapporto con Pirgiorgio Gentili.
Nell'insieme, un bellissimo romanzo che tutti possono "gustare".
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