venerdì 1 febbraio 2019

IL NONNO RACCONTA ...




Le pagine che seguono sono l'inizio del racconto di nonno Luigi alle sue nipotine in una fredda serata d'inverno a Vigo
1. Davanti al caminetto
Subito dopo cena nonno Luigi si era seduto sul divano davanti al camino col fuoco acceso. Alla sua destra c’era Margherita, alla sua sinistra Alida. Tutti gli altri erano in cucina e stavano animatamente discutendo di attualità e di politica. - Dai nonno, lasciali là gli altri; raccontaci di quando eri piccolo tu. - Alla scuola elementare, per dire che uno veniva da un luogo molto, molto lontano, si diceva: ‘Viene dalle Barolde’. Io abitavo alle Barolde. Anche la Marchesa era molto distante, ma non come le Barolde. Per un lungo tratto la strada per la Marchesa era la stessa, poi, alle due ‘pioppe’ c’era una biforcazio-ne: a sinistra la strada, molto larga, proseguiva per la Marchesa, a destra si re-stringeva e diventava “el stradon de le Barolde”. - Perché era chiamato così, nonno? - Perché era diritto, stretto, alto e solenne sulla campagna. Durante la brutta stagione della pioggia e della neve si riempiva di buche, soprattutto quando, dopo giorni e giorni di freddo, la terra sgelava.
Il disgelo
- Cosa vuol dire sgelava, nonno?
- Quando fa tanto freddo l’acqua si trasforma in ghiaccio: pensa a quando la mamma mette nel freezer una bottiglia di plastica con l’acqua. Hai osservato quanta acqua ci mette? - Non la riempie mai, l’acqua non arriva neanche al collo della bottiglia. - E sapete perché? - Sì, perché l’acqua si trasforma in ghiaccio e occupa più spazio di prima. Se la bottiglia fosse piena si romperebbe. - Brava Margherita. Una cosa simile succede alla terra: col freddo ghiaccia; quando poi la temperatura sale sopra lo zero il terreno sgela e il ghiaccio, prima imprigionato nella terra, si trasforma in acqua e si mescola con la terra diventando fango. Qualche volta avete giocato anche voi con la terra e l’acqua, no?
- Oh, sì. E ci siamo anche sporcate per benino.
- Dai nonno, va’ avanti, intervenne Margherita. - La terra del ‘stradon’ diventava fango. Immaginate quanta fatica si faceva a spingere i pedali della bicicletta. Ci alzavamo in piedi per fare più forza sui pedali, come fanno i corridori in salita, ma quando non ce la facevamo più mettevamo giù i piedi. E allora... - E allora?
Le sgiàvare
- Allora le nostre sgiàvare affondavano nel fango. - Sgiàvare: che nome strambo! Che cos’erano? - Erano delle scarpe particolari che il mio papà ed i miei zii facevano durante l’inverno. La parte rigida, cioè la suola e i tacchi, era costituita da un unico blocco di legno; la tomaia, cioè la parte superiore, era di cuoio. Sotto la suola, vicino al bordo, a distanza regolare, venivano conficcati dei chiodi con la testa larga e sotto, sulla punta e sul tacco due mezzelune in ferro.
- Ma perché tutto questo ferro nella suola? - Perché il ferro dei chiodi e delle mezzelune impediva al legno, di carpino, di consumarsi. Le sgiàvare dovevano durare il più a lungo possibile. - Perché, nonno? - Dai, Alida, non interrompere sempre, se no il nonno non può andare avanti.
- Tu, magari, Margherita, queste cose le sai già, ma Alida no, ed è giusto che chieda. Comunque, vi dicevo, qualche volta capitava che, nello sforzo di tirar su dal fango la sgiàvara, si tirava su il piede, ma la sgiavara rimaneva sotto. - E allora?
- Allora potete immaginare cosa succedeva: reggendomi su una gamba sola e appoggiandomi alla bici mi tiravo su le maniche, affondavo la mano nel fango per cercare la sgiàvara, la estraevo, tiravo via tutto lo sporco che potevo, giravo la bici e tornavo a casa tenendo con la sinistra la manopola del manubrio ed appoggiando la destra, che afferrava con due dita la sgiàvara, all’altra manopola. Ma a questo punto scattava la paura di prenderle dalla mamma... - Perché? Non era stata colpa tua! - Perché le mamme ci raccomandavano sempre di non andare in bici quando c’era il fango. Allora sapete cosa facevo?
- No, cosa?
- Quando arrivavo al portone di ingresso della corte, appoggiavo la bici dietro il muro laterale, vicino al quale c’era uno stretto passaggio pedonale per arrivare al cancelletto. Così nessuno poteva vedere la bici. Guardavo che sotto la barchessa non ci fosse nessuno, aprivo adagio il cancelletto al quale era applicata una piccola carrucola sulla quale scorreva una gossa corda legata allo spigolo superiore del cancelletto e tenuta tesa da un mattone che consentiva che si aprisse il cancello, e che, poi, automaticamente si chiudesse... - Cos’è la barc... - Ancora, Alida, non interrompere, uffa... - Quando ero sicuro che non ci fosse nessuno, andavo con la scarpa in mano sotto la barchessa, cioè il portico che univa le tre stalle, fino alla pompa... - La pompa?
- Sì, una volta, sia in casa che all’esterno, non c’era l’acqua corrente: c’erano le pompe che si azionavano a mano muovendo avanti e indietro un lungo manico di legno o di ferro o di ghisa. Bene, cercavo di fare il minor rumore possibile e.con una mano pompavo, con l’altra mettevo la sgiàvara sotto l’acqua in modo da lavare bene sia la tomaia chi la suola.
- Ma dopo, come facevi a metterla, così bagnata? - Se c’era sole o vento, la appendevo a qualche chiodo all’esterno e io andavo a sedermi in stalla su una balla di paglia, dopo essermi tolto anche le calze. Se invece c’era brutto tempo, indossavo lo stesso le sgiàvare anche se erano bagnate. Pensavo: meglio bagnarmi i piedi che prenderle dalla mamma.
Però, un giorno, ricordo, ero proprio lì che tentavo di lavare le sgiàvare sotto el pòrtego, quando la mamma arrivò. ‘Cosa fai lì?, mi disse. Ti sei infangato tutto, ah! Non solo le sgiavare, ma anche i calzettoni e le braghe. Te l’avevo detto di non andare in bicicletta col fango; non c’è niente di peggio del fango. Per togliere le macchie di fango bisogna fare la lissia...’ - Fare cosa, nonno? - ... la lissia, cioè un lavaggio di acqua bollente e cenere in un grande pentolone di stagno, el parolo. Ma ti spiegherò meglio un’altra volta come si faceva la lissia… E la mamma continuò: ‘E domenica come ti vesto, io?’ Io stavo zitto, contento, questa volta, di averla passata liscia.
Le sbrissiarole
- Nonno Gigi, chiese Alida, ma le sgiàvare le mettevate sempre? - Fino all’età di otto anni noi bambini le indossavamo spesso, anche per andare a scuola. E a scuola, a dire il vero, ci vergognavamo. ‘Ecco che è arrivata la cavalleria delle Barolde!’, ci dicevano sentendo il forte rumore prodotto dalla ferramenta. La suola, di legno, era assolutamente rigida. La suola delle vostre scarpe è rigida? - No, nonno, si piega, perché è di cuoio o di gomma. - Brave! Immaginate per un attimo che la suola non si muova, come le sgiàvare: è una specie di tortura, ve lo assicuro. Noi bambini continuavamo a chiedere di non mettere più le sgiàvare per andare a scuola, soprattutto per il rumore. Dopo varie insistenze, i nostri papà toglievano le mezzelune in ferro davanti e dietro e le sostituivano con due striscioline di copertone di bici, in modo che le sgiàvare facessero un rumore più attutito. Finalmente, in 3^ elementare, siamo stati accontentati del tutto e le sgiàvare sono andate in pensione. C’era però un momento in cui eravamo noi bambini ad andare alla ricerca delle sgiàvare.
- Quando? - Quando, di solito a partire dai giorni della merla, il freddo diventava molto forte, molto più di adesso. Il termometro rimaneva per molti giorni sotto zero.
- Cosa sono i giorni del merlo, nonno?, intervenne Alida. - Della merla, ha detto il nonno, non del merlo.
- Erano chiamati così gli ultimi giorni del mese di gennaio, i più freddi dell’anno. Se la temperatura era molto bassa, significava che ci sarebbe stata poi una primavera mite. Erano chiamati della merla perché, secondo la leggenda, una merla bianca, irrigidita dal freddo, si era riparata in un camino. Lì si era riscaldata, ma quando uscì era diventata tutta nera per il fumo. - Bella questa leggenda! Ma perché una volta inventavano queste storie non vere? - Quando non sapevano come spiegare con la scienza certi fenomeni, allora la fantasia della gente si metteva in moto e cercava una spiegazione diversa, convincente, ma fantastica … - Ma loro ci credevano, poi? - Mah, non è facile rispondere… secondo me si rendevano conto che la spiegazione era frutto di fantasia, ma era comunque un modo per capire perché succedevano certe cose. Per esempio, nel nostro caso, la leggenda della merla riusciva a spiegare perché i merli fossero neri neri e non bianchi e perché i giorni in cui “la merla” si era riparata nel camino, cioè gli ultimi giorni di gennaio, fossero così freddi. - Ma, disse Alida, a me sembra che una volta la gente fosse un po’ stupida a credere a cosecosì… - A te piacciono le fiabe, Alida? - Sì, ma io so che non sono vere… - Anche le persone di una volta sapevano che quelle storie non erano vere, però ne erano affascinati, come tu dalle fiabe, e questo bastava loro per darsi una spiegazione di certe cose, di certi fenomeni che non si riuscivano altrimenti a spiegare. - Ho capito, ma non sono convinta… - Dai Alida, basta con queste interruzioni… torna al racconto, nonno. Perché vi piaceva indossare le sgiàvare, allora?
- Perché l’acqua dei fossi gelava: si formava uno spesso strato di ghiaccio e sul ghiaccio le sgiàvare erano l’ideale, perché scivolavano molto meglio del cuoio. Noi ragazzi, ma anche le bambine, bene imbacuccati e protetti da berretto di lana, calze lunghe tenute su da due elastici in cintura, pantaloni corti di fustagno, sceglievamo il fosso più adatto, cioè quello sufficientemente largo, ma non troppo, se no c’era il rischio che al centro il ghiaccio si rompesse; quello in cui il ghiaccio era più spesso ed anche più limpido. Poi, prima di cominciare, con un lungo bastone facevamo le prove di tenuta: davamo dei colpi, con la parte grossa del legno, sul ghiaccio. Se non si muoveva voleva dire che potevamo scendere sicuri; se, invece, dal punto colpito si formavano delle linee a raggera, allora era meglio scegliere un altro fosso. Quando eravamo sicuri della portata, scendevamo e, uno alla volta prendevamo una lunga rincorsa e poi slittavamo in piedi. All’inizio bisognava passare molte volte sulla pista perché diventasse lucida. - Perché nonno? - Perché sopra il ghiaccio c’era una specie di patina bianca, dovuta alla caduta della nebbia o della brina dagli alberi e per scivolare bene bisognava che venisse via tutta. Poi arrivava il bello... - Cioè? - ... le gare vere e proprie. Vinceva chi riusciva a fare la scivolata più lunga. Inventavamo anche delle varianti: la scivolata de cuciatìna, accucciati, per esempio: in questo caso era più difficile mantenere l’equilibrio. Oppure la scivolata su un solo piede, prima sul destro e poi sul sinistro: ancora più difficile. I capitomboli erano numerosi. Un giorno, dalla lissiara, il locale dove si facevano bollire i pentoloni della lissia, portammo con noi il coperchio in ferro, smaltato di bianco, del grande secchio dove le donne mettevano la biancheria bianca appena lavata. Rovesciandolo diventava uno slittino velocissimo. Uno, di solito il più piccolo, si sedeva sopra il coperchio ed un altro lo spingeva il più velocemente possibile fino all’inizio della pista. Il resto veniva da sé. Finché zia Emma non si accorse della sparizione del coperchio, dopo tre o quattro giorni, potemmo continuare a divertirci. - Tu eri bravo, nonno? - Sì, vincevo spesso le gare, forse perché ero piccolino e leggero. Il fosso che sceglievamo più spesso per le nostre gare era dietro la nostra casa, a nord, dove il sole non batteva mai. Era largo un paio di metri, profondo circa 80 centimetri ed aveva le sponde oblique che sembravano fatte apposta per scenderci dentro con facilità. Passavamo ore e ore facendo le sbrisciaròle lìssie come ‘l saon, sdruccioli lisci come il sapone. Per scivolare meglio andavamo alla pompa, in casa o, più spesso, sotto la barchessa (così eravamo fuori portata degli adulti, pronti a sgridarci), riempivamo il secchio d’acqua e poi lo versavamo sulla pista di ghiaccio. Era un’operazione delicata che andava fatta bene, se no si rischiava di rovinare tutto: bisognava gettare l’acqua a ventaglio, e con una certa forza, ma non violentemente, in modo che essa, ghiacciando subito per la bassa temperatura, si distribuisse uniformente su tutta la superficie. A volte ne serviva tanta, di acqua. Così uno di noi faceva la spola tra il fosso e la pompa. Un giorno deci-demmo di fare una gara ... speciale, la gara col salto. - Come facevate? - Era una delle varianti più difficili che avevamo inventato. La nostra pista di pattinaggio era composta di due parti: la pista vera e propria, dove si scivolava, e la corsia di accelerazione, che doveva rimanere ruvida il più possibile, per evitare di cadere mentre si correva: per questo, quando intorno c’era la neve, ogni tanto la stendevamo sul passaggio; un po’ come la pista del salto in lungo, l’avete visto, no, alla televisione? Ognuno di noi, in base alle regole stabilite, doveva prendere una rincorsa veloce nella corsia di accelerazione e, prima che iniziasse la pista lucida, doveva spiccare un salto, il più lungo possibile. La difficoltà consisteva nello stare in equilibrio dopo il salto continuando con una scivolata. Succedeva spesso che qualcuno cadesse, ma tutti avevamo imparato a cadere ‘bene’ sul sedere. Qualcuno, per esempio io, per evitare spantazà, cioè cadute dall’alto non controllate, si legava un cuscino al sedere. E tutti ridevamo a crepapelle. Un giorno arrivarono anche alcuni compagni di classe dal paese e tutto procedeva per il meglio. Quando toccò a me, presi la rincorsa, spiccai un gran salto e..
- eee... -... e il ghiaccio, già sollecitato da molti precedenti salti, trac... si aprì sotto di me. Sentivo l’acqua arrivarmi al petto; con le braccia mi tenevo aggrappato lateralmente ai blocchi di ghiaccio, ma mi rendevo conto che il ghiaccio avrebbe tenuto ancora per poco. Paolo fu pronto ad allungarmi un bastone e risalii sulla riva. Il gioco era ormai finito. Paolo e Danilo mi accompagnarono in casa, mentre gli altri, sconsolati e delusi, se ne tornarono alle loro abitazioni. La mamma mi tolse i vestiti, mi mise accanto al fuoco del camino, appese alla catena una ramina piena d’acqua, prese il grande mastello di legno vicino all’acquaio, vi versò l’acqua bollente aggiungendovi poi vari secchi di acqua fredda. Non disse una parola; mi fece il bagno e, mentre mi stava asciugando mi disse: “Arda che no te t’inventi ‘ncora de nare a slissiare”, non andare mai più a scivolare sul ghiaccio.


2. El stradon


Quando, dopo il disgelo, la terra si induriva, i nostri genitori e gli zii passavano con l’erpice tirato dai buoi o, in periodo più recente, dal trattore, per togliere le buche più profonde. All’andata sistemavano la parte destra facendo il colmo al centro e al ritorno la sinistra, sempre con la pendenza laterale. - Perché, nonno, dato che facevano il lavoro, non sistemavano bene la strada in modo che fosse tutta liscia? - Il mio papà e gli zii non facevano le cose a caso, ma si servivano della loro esperienza per fare bene i lavori. In questo caso se l’acqua della pioggia fosse rimasta su un terreno piano, sarebbe stata lentamente assorbita dalla terra e avrebbe lasciato delle buche più o meno profonde a seconda della durezza del terreno: più profonde dove la terra fosse più morbida, meno dove fosse più dura. Così facevano di proposito il colmo in mezzo alla strada in modo che l’acqua piovana potesse scendere giù nel fossato facendo il minor numero possibile di buche. I fossi avevano anche proprio la funzione di raccogliere le acque della pioggia dalle strade e dai campi, di rilasciarla adagio nei terreni circostanti e di confluire in corsi d’acqua più grandi. Dopo aver finito questo lavoro arrivava Marini col camion e rimorchio pieni di ghiaia. Al ponte delle due pioppe cominciava a scaricare quella grossa. Tutti andavamo là, a piedi, ad ammirare lo spettacolo a bocca aperta: nessuno aveva mai visto un camion così, rosso fiammante e per di più ribaltabile: l’autista tirava una leva e, magìa, il cassone del rimorchio si alzava e la sponda posteriore lasciava cadere una gran quantità di ghiaia, che scendendo faceva il rumore di un violento acquazzone. Una decina di uomini con carriole e badili la stendeva in maniera regolare e il camion aspettava che tutta la ghiaia fosse stata utilizzata per poi scaricarne ancora.
Noi ragazzi avremmo voluto aiutare i grandi con le nostre palette, ma guai ad avvicinarsi.
- Invece di essere contenti!
- Loro sembravano gelosi del lavoro e non volevano bambini fra i piedi. I bambini non dovevano in alcun modo ostacolare il lavoro dei grandi.
- Sembra quasi che non gli volessero bene!
- Anche noi bambini avevamo subito questa impressione, ma poi ci rendevamo conto che le regole vanno rispettate, e una di queste era che i bambini non dovevano intralciare in alcun modo i lavori dei grandi. Poi va detto che i papà, in genere, erano poco espansivi… ti davano un bacio nelle grandi occasioni, alla prima comunione, alla cresima, quando ti ammalavi… Era la mamma a manifestare più apertamente il suo affetto per i bambini..
- Come quando te le suonava se ti sporcavi le scarpe o la maglia…
- Devi pensare, Alida, che la mamma doveva insegnarci a crescere rispettosi ed ubbidienti, e quindi, qualche volta si mostrava severa. Il più delle volte noi bambini sapevamo come evitare i castighi e allora la mamma, che non sapeva più cosa fare, ci minacciava dicendo:”A ghe lo digo mi a to opà stasera quando ‘l vien casa da i canpi”, lo dico al papà quando torna stasera dai campi.
- E allora, cosa succedeva?
- Qualche volta la mamma si dimenticava – o forse non voleva- raccontare al papà quanto era successo; talvolta, invece, lo diceva veramente e allora …
- E allora…
- il papà mi chiamava, “vien qua, ‘sa gh’èto fato?”, vieni qui, cos’hai fatto? Gnénte, niente, azzardavo. Se no te gavéssi fato gnénte, to mama no la m’avarìa dito gnénte; te convién dirme in pressia ‘sa te ghé fato, se tu non avessi fatto niente, la mamma non mi avrebbe detto niente; ti conviene dirmi in fretta cos’hai combinato.
E così dovevo raccontare quanto era successo e aspettarmi la punizione, che il più delle volte era di andare nella stanza accanto, da solo, e aspettare che qualcuno mi facesse rientrare, su ordine del papà
- Però, non scherzava mica tanto…
- Dai, Alida che il nonno ci finisce il racconto.
Sul stradon, gli uomini erano velocissimi nello stendere la ghiaia, ma per finire il lavoro servivano 3 o 4 ore, qualche volta anche di più. Quando il camion aveva scaricato tutto, si girava e se ne andava e gli uomini, dopo aver stesa tutta la ghiaia con i badili, passavano con un pesantissimo rullo in pietra, trainato dai buoi o dal trattore. Poi aspettavano che Marini tornasse con la ghiaia fine appuntita. E l’operazione di stendere la ghiaia veniva ripetuta, questa volta con molta più celerità.
- Perché ghiaia appuntita e non tonda? Se andavate in bicicletta non c’era il pericolo di forare?
- E’ una bella domanda, Margherita. Veniva scelta la ghiaia appuntita e non molto piccola perché al passaggio dei vari mezzi di trasporto (carri, rimorchi, trattori) essa si conficcava più facilmente nel terreno e non scivolava via nel fosso come la ghiaia tonda. E’ vero però che era più facile bucare le gomme delle bici. Per questo le mamme, il mattino ci facevano partire almeno mezz’ora prima dell’inizio delle lezioni, per avere il tempo, nel caso in cui forassimo o in cui la catena uscisse dalla ruota dentata, di arrivare lo stesso puntuali in classe.
- Eravate tanti bambini?
- Eravamo in sei delle Barolde a frequentare le elementari. Di solito lungo el stradon si procedeva affiancati a due a due, mentre dopo le due pioppe si stava anche in tre, sebbene le mamme continuassero a raccomandarci di stare in fila indiana. Un giorno, sul stradon, mentre io stavo sorpassando, al centro, sul colmo della strada, i due cugini che mi precedevano, sono scivolato su uno strato più spesso di ghiaia e sono finito a terra insieme agli altri. Ci siamo rialzati, abbiamo guardato le mani, le ginocchia e i pantaloni: c’era solo qualche escoriazione, un po’ di sangue qua e là, ma niente di preoccupante. A Danilo era andata giù la catena e, girata la bici con le ruote all’in su, la rimise al suo posto con le mani, sporcandosi ben bene di sonzon, di unto nero. Nessuno s’è sognato di proporre di tornare a casa per medicarsi e per lavarsi.
‘Quando arriviamo al capitello ci laviamo con l’acqua della pompa’, disse la Sandra, che era un po’ la mammina del gruppetto.
‘E tu, Danilo, pulisciti un po’ con la terra per coprire l’unto’. Così facemmo. Un po’ prima del capitello, in fianco alla mura dei Campolongo, ci siamo disinfettati alla nostra maniera, ci siamo lavati le mani, soprattutto Danilo, ci siamo asciugati alla meglio coi fazzoletti e abbiamo raccomandato a Paolo, che si lamentava per il dolore al ginocchio, di stare zitto e di non lagnarsi. - Perché, poverino? - Perché temevamo che arrivasse la notizia dell’accaduto ai nostri genitori. Ma durante la ricreazione Paolo non ce la faceva più: il ginocchio gli si era gonfiato e la maestra chiese al bidello di accompagnarlo all’ospedale, che distava poco più di due chilometri. Il bidello alzò di peso Paolo e lo sedette sulla canna della bici e ritornò con lui prima che le lezioni finissero.
‘L’hanno medicato. Aveva alcuni sassolini fin dentro la carne; adesso sta meglio’, disse alla maestra. E per quel giorno Paolo tornò a casa sulla canna di Danilo; la bici di Paolo la tenne il bidello nella sua casetta. ‘Domani ti farai por-tare a scuola e poi tornerai con la tua bici’.
El stradon delle Barolde era bellissimo: lungo come un serpente, sopraelevato rispetto ai campi di tre o quattro metri, due verdi filari di salici che arrivavano fin quasi dentro la corte. D’estate si stava bene alla loro ombra, protetti dai rami a ventaglio; d’inverno passavamo sotto i rami coperti di brina con la testa sempre per aria per ammirare lo straordinario spettacolo. Noi ragazzi, quando i grandi erano o in casa o al lavoro nella càmara marangon, cioè nella falegnameria di fronte al caseggiato principale, prendevamo di nascosto sull’aia una pertica ciascuno e andavamo sullo stradon a sbattere la brina. Se eravamo in due ci mettevamo uno sul filare di destra e l’altro su quello di sinistra. Se eravamo in quattro, due stavano davanti di una trentina di metri e due dietro, uno da un lato e l’altro dall’altro. Vinceva la gara chi in un tempo determinato riusciva a ripulire dalla brina la maggior quantità di rami. Spesso nascevano delle dispute perché c’era chi, come Danilo, che per fare più in fretta, non puliva bene i rami. Per questo motivo si decise che sarebbero stati conteggiati solo i rami perfettamente puliti. Questo gioco però non era possibile farlo tutti gli anni, perché ogni altro inverno i nostri genitori scalvavano i rami dei salgàri

3 Il taglio dei rami di salice


Ogni due anni, all’inizio dell’inverno, gli uomini prendevano una scaletta di legno e la appoggiavano al tronco o a qualche grosso ramo; usavano el stegàgno, il pennato, piuttosto pesante, specialmente per scalvare, cioè per tagliare e potare.
Il papà o gli zii si facevano largo tra i rami usando il pennato de costa e de taio, di taglio e di penna; il pennato lo tenevano tacà a l’anzìn, una sorta di uncino doppio, dietro la schiena, che pendeva sul sedere. Legavano la pièra, la cote per affilare la lama del pennato, lateralmente alla cintura. - Un po’ come i cow boy, che avevano la pistola alla cintola… - Sì, proprio così. Tagliavano ad uno ad uno tutti i rami dei salici, facendo saltare in aria con maestrìa le piccole scaglie del salice.
‘Sta’ più in là, spostati’, mi diceva mio padre quando andavo sul stradon a guardare il taglio dei rami.
‘E’ pericoloso; se una scheggia ti arriva su un occhio te lo porta via’.
Stendevano poi i rami a terra lungo el stradon, lasciando uno stretto passaggio per le biciclette.
- E poi, li usavano per scaldarsi in casa?
- No, Margherita, il legno di salice è molto leggero e si consuma molto in fretta; non era quindi adatto per il riscaldamento. Per questo scopo si usava il legno del pioppo, che non era comunque tra i migliori, ma, soprattutto il noce e el spinaro, la robinia, che erano legni molto forti. - E di tutti quei rami che cosa ne facevano allora?
- Li caricavano su un carro o sul rimorchio e li portavano sull’aia di mattoni, già coperta con le piante del granoturco o con le sole radici, i scataròni, per proteggerla dalle gelate. Qui, un po’ alla volta, facevano la punta ai pali col stegagno de taio,tenendo alto il palo su un ceppo di legno e quindi, con un coltello curvo, gli uomini e le donne toglievano la scorza ai pali e sistemavano in mucchi diversi i pali di spessore più grosso e quelli più fini. I primi servivano come sostegno per i filari di viti coltivate a spalliera; i secondi come tutori per le piante di fagiuolo o di piselli. Talvolta, in mezzo alle cataste di pali sull’aia, si nascondevano degli animali. Come quella volta ...
- Quando?
La martora
- Era una domenica pomeriggio di febbraio; il sole splendeva alto nel cielo. Eravamo tutti sull’aia a goderci uno sprazzo di primavera. Erano venuti anche i numerosi cugini dal paese. Saremmo stati una trentina. Ad un tratto sentimmo l’urlo di Benito, che allora era il fidanzato di mia cugina Maria: ‘Un martorélo, un martorèlo’, una martora, una martora! Tutti interrompemmo i giochi e corremmo sull’aia, là dov’era Benito. ‘L’ho vista, si è rifugiata lì in mezzo alla catasta. Tiriamo via i pali, dai!’. Tutti ci demmo da fare per togliere i pali. All’improvviso, con uno scatto fulmineo, l’animale dalla bellissima pelliccia rossiccia fuggì dal suo nascondiglio a tutta velocità dirigendosi verso il silos dei foraggi. Benito e tutti noi ci mettemmo a correre dietro la martora. A nessuno di noi venne il dubbio che quella non fosse una martora, anche se non l’avevamo mai vista, perché l’aveva detto Benito e, tutti lo sapevano, lui era un grande esperto di animali, di alberi e di piante; lui non poteva essersi sbagliato. ‘E’ entrata nella canaletta di scolo del letamaio. Voi due rimanete lì di guardia all’imbocco’, disse a me ed a Paolo. ‘Io vado a prendere un sacco e tor-no. Voialtri intanto’, disse a Romano ed Alberto, ‘state di guardia all’uscita del tunnel. Tu, Renzo, vieni con me, che prendiamo anche quella stia per polli vuota vicina al magazzino. Eravamo tutti agitatissimi. Dopo pochi minuti ricomparve Benito con il sacco (che buttò per terra vicino al letamaio), con la stia (che aveva il coperchio staccato) e con un mucchio di foglie.
- Chi ha un fiammifero?, chiese.
-A cosa voleva dar fuoco?
- Ma stai un po’ zitta?
Renzo, il fumatore del gruppo, senza sapere che cosa ne facesse dei fiammiferi, gli passò una scatola di cerini. Benito mise le foglie secche all’imboccatura della galleria in cui era entrata la martora e disse a Romano ed Alberto di mettere il sacco all’uscita della galleria, tenendolo ben stretto con le mani al tombino. Benito accese un cerino e le foglie cominciarono a sprigionare un fumo fastidioso. Usando un cartone come ventaglio Benito incanalava il fumo dentro la galleria. Di lì a poco, all’improvviso, un urlo:
‘E’ dentro il sacco; è qua’.
Benito fu là in un attimo: tenne l’imboccatura chiusa del sacco, mise lo scarpone sul collo dell’animale per impedirgli di girarsi all’interno; prese con le due mani il sacco dove c’erano la testa e il collo dell’animale; lo alzò e ‘liberò’ la martora all’interno della gabbia per polli. Si affrettò ad appoggiare il coperchio di rete sulla parte superiore della stia, tenendolo ben premuto.
Eravamo tutti in ansia, con gli occhi sgranati, per vedere come sarebbe andata a finire.
E, dico la verità, cominciavo a temere per la sorte della povera martora, che girava come impazzita dentro la gabbia: assomigliava ad uno di quegli acrobati del circo in moto all’interno della gabbia metallica circolare.
- E come è andata a finire, nonno?
- All’improvviso la martora ci lasciò tutti di stucco e senza parole: mentre continuava vorticosamente a girare all’interno, con un balzo incredibile si fece beffe della sorveglianza di Benito, si infilò, distendendosi come se fosse piatta, sotto il coperchio e partì come un razzo incanalandosi in un fossetto senza acqua. Ci guardammo in silenzio, contenti, in fondo, che l’incontro con la martora fosse finito così. 

4. El traion
Le nevicate, allora, erano frequenti e abbondanti, e la neve non si scioglieva in fretta: poteva rimanere anche per settimane intere.
- Faceva più freddo di adesso e nevicava più spesso?
-Sì, c’erano degli inverni molto più rigidi. La temperatura scendeva spesso sotto zero e la neve cadeva abbondante. Già abbiamo visto che i fossi gelavano con facilità.
Appena smetteva di nevicare, mio padre e i miei zii tiravano fuori dalla stalla i buoi (o, in anni più recenti, il trattore), agganciavano al timone el traiòn, uno spazzaneve a forma di àncora con un’alta punta davanti.
Tutti noi bambini, maschi e femmine, sedevamo sul traion ben imbacuccati e cantando e gridando arrivavamo fino al capitello di San Rocco, vicino alla chiesa. Salutavamo lungo il percorso tutti quelli che incontravamo, felici per la bellezza del paesaggio...
- Adesso non esagerare, nonno. Le Barolde non erano certo belle come l’Umbria, la Toscana o le Cinque Terre che abbiamo visitato insieme...
- Non ho fatto di proposito confronti, Margherita. Certo, i luoghi che hai citato tu sono bellissimi, ma, credi, anche il paesaggio della campagna, dopo una nevicata, era straordinario. In quelle occasioni, non lo nascondo, eravamo felici ed eccitati, oltre che per lo spettacolo naturale, anche per il fatto che eravamo autorizzati a saltare la scuola.
El traion, guidato da dietro e premuto a terra con un timone da mio padre a piedi, buttava la neve ai lati della strada, dando la possibilità di passare coi vari mezzi di trasporto, comprese le biciclette.
Se però di notte la temperatura scendeva sotto lo zero, sulla neve liscia si formavano dei lastroni di ghiaccio che diventavano pericolosissimi perché si scivolava come sull’olio.
Un giorno, disubbidendo ai genitori, utilizzammo quei lastroni come sbrissiarole. Ci sembrava di volare.
Fu allora che passò Bepi Crivellente con la bici.
- Cosa fate, disgraziati, sulla strada? Volete far cadere la gente?, ci apostrofò alzando minacciosamente la mano sinistra dal manubrio. Proprio in quell’istante Bepi barcollò e cadde a terra imprecando. Non s’era fatto niente di grave, ma in dieci secondi eravamo spariti tutti dalla circolazione.
Adesso possiamo concludere, per stasera, e avviarci a nanna.
La tombola
La sera delle domeniche invernali di solito si giocava a tombola, usando come segnanumeri i grani di polenta.
- Anche noi abbiamo giocato, qualche volta, con la mamma e il papà, ma usavamo i fagioli.
- Qualche volta anche noi, ma preferivamo i chicchi di granoturco perché erano più piccoli e ruvidi al tatto. La posta in gioco era di pochi spiccioli.
Qualcuno teneva una sola cartella; altri due o tre; i più abili seguivano sei cartelle, per avere la serie di tutti i numeri, dall’1 al 90, senza doppioni; a qualcuno, invece piaceva proprio avere i numeri doppi, per metter giù più grani contemporaneamente sperando di essere favorito nella vincita. Erano delle partite lunghissime; il cartellone era tenuto a turno dai presenti e c’era molta diversità tra l’uno e l’altro nell’annunciare i numeri. C’era chi, come le nostre sorelle maggiori, leggeva con ritmo regolare ed a voce alta i numeri; chi, invece, come i nostri fratelli, andava a sbuffi, come un treno a vapore: adagio all’inizio, per poi aumentare la velocità di estrazione delle pedine.
- Sai che rottura?
E’ proprio così. Difatti, immediatamente, le donne protestavano perché non avevano capito o non erano riuscite a mettere sulle cartelle tutti i grani di polenta. E si affollavano le richieste di sapere se era uscito il 15, l’1l, il 68, ...
Quando c’erano i nostri fratelli più grandi, ridevamo molto, perché facevano battute a raffica. Commentavano ogni numero uscito, per esempio: quarantotto, asino cotto; settantasette: le gambe delle vece; uno, paron de gnessuno; due: l’asino e il bue, e facevano continue allusioni alle simpatie ed agli amori delle nostre sorelle più grandi. Noi piccoli ci agganciavamo subito per chiedere:’Come si chiama quello che va con la Gabriella?’
E lei, di rimando:’Ma sta zitto, tu, che hai ancora il pissoto, il cuscino al sole! Dopo due o tre partite, la mamma metteva sulla tavola grandi vassoi con la zuca baruca o quella violina, che sparivano in un baleno. Dal ripiano in ferro della cucina economica tirava fuori, poi, le miole brustolà, i semi abbrustoliti di zucca, che sbucciavamo pazientemente per delle mezz’ore, nelle brevi pause della lettura, facendo attenzione di non perdere i numeri. Renzo faceva apposta a fare un rumore del diavolo quando le apriva. Immancabilmente la Rita gli diceva: Renzo, non hai ancora terminato de rompare le nose?, una frase con un evidente doppio senso.
- Quale, nonno?
- Non mi dirai, Margherita, che devo proprio spiegarti tutti questi particolari!
- Ma nonno...
- Ogni tanto c’erano delle dispute sulle vincite, soprattutto quando erano in due o tre a dichiarare la vittoria. Quando veniva dichiarata la tombola, chi teneva il cartellone prendeva la cartella del vincitore, leggeva a voce alta i numeri presenti e immancabilmente diceva che uno dei numeri non era stato estratto. Subito le proteste degli altri: ‘Ho già tirato via tutti i grani dalle mie cartelle; come faccio adesso?’.
E le proteste del ‘vincitore’: ‘No, sono sicuro che ci sono tutti i numeri; fai apposta!’. Poi, tutto finiva in una risata.
Sembrava impossibile: alcuni dei vincitori erano sempre gli stessi.
‘A te gh’è un culo che no l’è gnanca tuo!’, hai una fortuna incredibile, era la frase di rito.
- Però, dicevate anche le parolacce, nonno.
- Eh, qualche volta sì, Alida. In effetti in campagna si usavano spesso espressioni di quel tipo.

5. Le zéste
In dicembre il mio papà, specialmente nei giorni di pioggia, apriva il portone del magazzino e faceva zéste e cavàgne, ceste e cestoni; si sedeva vicino all’entrata, per respirare meglio e, soprattutto, per vederci bene.
Prendeva le strope, i vimini, tagliati qualche giorno prima dai stropari, gli alberi di vimini, le sceglieva in base al diametro ed alla lunghezza e cominciava a fare il fondo, lasciando ad intervalli regolari dei vimini abbastanza lunghi all’esterno, in modo da intrecciarvi poi la parte laterale.
- Era difficile questo lavoro?
- Richiedeva una grande abilità ed erano pochi quelli che lo sapevano fare bene.
- E tu, hai imparato, nonno?
- Io, pur avendo guardato tante volte papà mentre lavorava i vimini, non ho mai imparato.
I cesti più belli, per esempio quelli che sarebbero stati utilizzati in casa, per il pane comune, o le grandi ceste per contenere il pane biscotto, richiedevano una lavorazione supplementare: mia madre preparava una grande ramina piena d’acqua in lissiara, e quando bolliva, mio padre vi metteva dentro le strope.
- Perché, le bolliva?
- Sì. In tal modo la scorza esterna delle strope si toglieva con facilità e i cesti, alla fine, erano bianchi ed eleganti. La cesta del pan biscotto la tenevamo al primo piano nella camera sopra la cucìna, appesa ad una catena agganciata al soffitto.
- E perché la mettevate proprio lì? Non dovevate ogni volta fare le scale per andarla a prendere?
- Era una camera abbastanza calda, perché era sopra la cucina economica e il camino e ci passavano le canne fumarie sia dell’una che dell’altro. Così il pane si conservava croccante e non diventava tegnizo, difficile da masticare, perché gommoso. Veniva poi appesa al soffitto perché, se ci fosse stato qualche maréciola, non sarebbe riuscito a raggiungere in alcun modo la cesta.
Durante la lavorazione, mi piaceva sedermi, con la careghina, il seggiolino, vicino al mio papà.
Era l’occasione per parlare un po’ di tutto.
Il papà mi chiedeva della scuola, dei miei compagni, dei giochi; io gli domandavo informazioni su qualche lavoro, ma soprattutto, sul fucile che teneva nella sua camera da letto, appeso ad un grosso chiodo.
Un giorno gli chiesi: ‘Ma come mai tu, papà, che non vai a caccia come lo zio Severino, tieni un fucile in casa?’. Notai il suo imbarazzo nel rispondermi.
‘Ce l’ho sempre avuto, da quando son tornato dalla guerra. Sai, qui alle Barolde siamo lontani da altre case e, se vengono i ladri, una schioppettata li può far scappare, specialmente col mio Browining, che è un fucile semiautomatico a cinque colpi’.
- Cosa vol dire, nonno, semiautomatico?
- C’è questa differenza tra il fucile automatico e il semiautomatico. Col primo, tenendo premuto il grilletto, i colpi partono uno dopo l’altro, come se fosse un mitra; col secondo, invece, premendo il grilletto, parte un solo colpo; per farne partire un altro occorre premere di nuovo il grilletto.
‘E ti è capitato di sparare?’, chiesi a mio padre, sapendo di aver posto una domanda che sarebbe stata giudicata inopportuna.
Sparatorie
- Sì, qualche volta ho sparato, soprattutto subito dopo la fine della guerra, quando venivano a rubare le galline e i raccolti di notte. Di solito, sparando in aria, scappavano via.
- Ma uscivate di casa per sparare?
- No, sarebbe stato troppo pericoloso. Hai osservato le finestre del piano superiore, compresa quella della tua camera? Hanno una particolarità.
- Sì, ho visto, ho visto. Hanno un foro rotondo, e un’assicella che, attaccata con un chiodo, si sposta a destra o a sinistra verso l’alto, lasciando aperto il buco. Noi ci giochiamo spesso. - Ecco, in quei fori inserivamo la canna del fucile, guardavamo la direzione e sparavamo.
- Avete colpito qualcuno, qualche volta?
- No, stavamo bene attenti a non sparare in basso.
Su quegli episodi il papà non mi ha mai detto di più.
Dopo alcuni anni, quando già frequentavo l’università, la mamma mi ha raccontato che subito dopo la guerra, quando c’era molta miseria e la gente aveva poco da mangiare, c’erano uomini e donne che andavano, di notte, a portar via i raccolti in campagna.
‘Venivano anche da noi, alle Barolde, armati. I nostri uomini caricavano le cartuccere, prendevano i fucili e i mitra ...’. ‘Anche i mitra?, chiesi io. Ma non era proibito?’. ‘Sì, ma devi pensare che subito dopo la guerra tutti avevano armi, che si erano portati a casa o che avevano tolto ai tedeschi in fuga. Quelli che venivano a rubare erano armati anche loro.
I nostri uomini partivano in sei o sette, si appostavano, con gli stivaloni, dentro i fossati con poca acqua e facevano la guardia.
A casa stavamo col cuore in gola quando sentivamo che l’aria era lacerata dal crepitio dei mitragliatori: botta e risposta da una parte e dall’altra’.
‘Ma come mai, mamma, il papà non ne ha mai parlato?’.
‘Non voleva che voi veniste a conoscenza di questi episodi, che non erano belli. Adesso io te li sto raccontando, ma mi raccomando di non farne assolutamente cenno al papà. Lui non vuole. Non vuole che voi cresciate provando odio o rancore verso nessuno.
Sapevamo tutti chi erano quelli che venivano a rubare, li conoscevamo ad uno ad uno: alcuni di loro avevano lavorato alle Barolde ed erano stati aiutati dal papà in situazioni molto difficili. Erano poveri, ma la stragrande maggioranza dei poveri non andava a portar via la roba. Loro andavano in giro dicendo che era giusto togliere la roba e la proprietà a chi l’aveva per distribuirla a coloro che non ce l’avevano.
Una notte tuo zio Nando, che aveva sposato Severina, la sorella di tuo papà, per poco non ci lasciò le penne.
Era partito per i campi in Tafèle, a un chilometro circa dalla nostra casa, con il mitra. Iniziò una sparatoria e lui, dentro la Seriola, stava per essere circondato da quelli che erano venuti a rubare.
Per fortuna tuo padre e tuo zio Severino si sono resi conto di quanto stava accadendo e sono riusciti a togliere l’assedio. Zio Nando era rimasto completamente a secco di munizioni’.
(CONTINUA...)
6. La caduta nella Seriola


- Cos’è la Seriola, nonno?
E’ un piccolo corso d’acqua che proviene dall’Adige e serve per irrigare i campi durante la stagione estiva. La Seriola mi fa tornare alla mente un episodio dei primi anni della mia vita. Quando frequentavo l’asilo mi accompagnava spesso in bicicletta mia sorella Luisa.
- E’ la zia che vive nella casa di riposo di Milano e che abbiamo visto al matrimonio dello zio Alessandro?
- Sì, proprio lei. Allora lei aveva sedici anni e mezzo. Un pomeriggio, mentre stavo seduto sul sellino anteriore agganciato al manubrio e stringevo le mani per non cadere, a Luisa si affiancò, silenzioso, Gelmino e la accompagnò fino al ponte delle due pioppe. Gelmino non aveva ancora domandato in casa la sua mano; per questo si fermava ad una certa distanza dalle Barolde.
- Come, domandato in casa? A chi doveva domandare? E perché?
- Dovete sapere che una volta i ragazzi e le ragazze non si frequentavano liberamente come adesso. Quando un giovane si innamorava di una ragazza ed anche lei si sentiva attratta da lui, occorreva il consenso dei genitori di lei. Il ragazzo andava a casa del padre della ragazza e chiedeva il permesso di frequentarla. Di solito il padre faceva una serie di raccomandazioni: comportatevi bene, tenete alto l’onore della famiglia, fate le cose seriamente, vogliatevi bene, eccetera.
Gelmino non aveva ancora parlato con mio padre.
Dicevo che Luisa, arrivata al ponte delle due poppe, tenendo con entrambe le mani il manubrio della bici, girò all’indietro il pedale, in modo da fissarlo sulla bassa spalletta del ponte della Seriola.
In quel preciso momento io mi mossi e la bici cadde nel fossato asciutto, ed io con la bici.
Pianti, strilli miei e disperazione di mia sorella. Gelmino cercava di calmarla, dicendole che io non m’ero fatto niente e che non doveva preoccuparsi. Raddrizzò il manubrio, mi rimise sul sellino, salutò mia sorella e ritornò indietro.
- E dopo, quando sei arrivato a casa, cosa successe? Lungo el stradon, Alida, dissi a mia sorella che avrei raccontato tutto alla mamma, anche di Gelmino che l’aveva accompagnata fino al ponte.
‘No, non dirglielo’.
‘Sì che glielo dico’.
‘No, dai, non fare lo stupido! Domenica ti compro un pacchetto di figurine, basta che tu stia zitto!’.
‘No, dieci pacchetti’.
E fu così che terminai il mio primo album dei calciatori.
I giochi sul ‘zelese’
Nella seconda metà di marzo el zélese, l’aia di mattoni, veniva scoperto. Gli uomini caricavano sul rimorchio tutti gli scarti della lavorazione di granoturco che erano serviti per proteggere dalle gelate i mattoni dell’aia durante l’inverno e li portavano sul letamaio.
Noi bambini eravamo contenti perché potevamo finalmente utlizzare el zelese come campo giochi.
Dovevamo aspettare almeno un giorno, però, per dare il tempo ai mattoni di asciugarsi un po’. Poi prendevamo il pallone – ne avevamo uno di cuoio marrone, numero cinque, tutto spelato perché giovavamo sui mattoni – e cominciavamo a scalciare.
Con due pali e una perteghina costruivamo la porta: conficcavamo i due pali a distanza di circa sei passi l’uno dall’altro appena giù dal zelese; poi, col filo di ferro legavamo in alto la perteghina che fungeva da traversa. Utilizzando un treppiede, col martello conficcavamo un lungo chiodo per tener fissato meglio il palo alla traversa
- Cos’era il treppiede, nonno?
- Era una speciale scaletta triangolare, non molto alta, su cui si saliva da tre lati.
Una sera dopo cena organizzammo una partita a otto. Giocavano anche i fratelli e i cugini più grandi. Tutto andò bene fino a quando Renzo tirò una pallonata di traverso violentissima. Altrettanto forte fu il fragore dei vetri infranti dell’antiporto d’ingresso di casa mia. Renzo si mise le mani nei capelli e si preparò a tirar fuori la mu-sina, il salvadanaio, per acquistare una nuova lastra.
Poi l’avrebbe montata Romano, il ‘tecnico’ delle Barolde.
Un gioco molto diverso era la carampana.
Si poteva giocare in due, in quattro o in sei.
Se giocavamo sul zelese, uno di noi andava a prendere sul camino due o tre carboni coi quali si disegnavano otto rettangoli accostati. Se invece giocavamo sulla terra battuta, facevamo i segni per terra con una scaglia di mattone o di tavella.
Questo gioco richiedeva varie abilità: saper lanciare con esattezza, saper saltellare su un solo piede, usare il piede per spostare una scaglia, stare in equilibrio, fare dei lunghi salti su un solo piede.
- Chi erano i più bravi in questo gioco?
- Erano le ragazze. Gabriella, che aveva qualche anno più di noi, ma anche Rita e Anna. Proprio per questo, per avere delle squadre di pari livello, accanto ad una femmina c’era sempre un maschio.
7. I mestieri della mamma


- Finalmente puoi continuare, nonno Luigi, disse Margherita sedendosi con Alida accanto al nonno sul divano di fronte al caminetto. Erano già passati sette giorni.
- Che cosa vi è piaciuto di più dei racconti?, chiese il nonno.
- A me tutto.
- A me il modo in cui voi bambini vi organizzavate per giocare, senza che intervenissero i genitori.
- E poi, che facevate tutto quello che vi piaceva.
- Beh, vediamo un po’ come stavano le cose. Partiamo da quest’ultima considerazione di Alida. I nostri genitori, sia il papà che la mamma, lavoravano tutto il giorno nei campi. Si alzavano presto, non appena spuntava il sole. A che ora si alza il sole?
- Nonno, cosa dici? Lo sai che il sole non si alza. E’ la terra...
- Ci sarai pignola, eh, Margherita? Dal punto di vista scientifico hai ragione. Ma nel linguaggio comune si dice ancora così, sai, lingua lunga?
- Adesso, nonno, è Margherita che rompe...
- Ma che dici, Alida,va bene così, dai, scherzavo anch’io. Dicevo che, prima il papà, e dopo averci avviati a scuola tutti, anche la mamma, andavano a lavorare nei campi. La mamma rientrava verso le 11. Sapete perché?
- Per preparare da mangiare, penso.
- Sì, preparava il pranzo e faceva i mestieri di casa: sistemava i letti, metteva in ordine, apparecchiava la tavola, lavava qualche indumento. A mezzogiorno in punto, quando si sentivano in lontananza i dodici rintocchi del campanile, ci doveva essere pronto in tavola, con la minestra fumante nei piatti.
- Perché dici ‘ci doveva’?
- Perché il papà, altrimenti, si sarebbe innervosito e avrebbe cominciato a brontolare, a lamentarsi ed a rimproverare la mamma. Lei sapeva che ‘doveva ubbidire al marito’.
- Era come se fosse stato il suo padrone! Io, in classe ho sei compagni marocchini che ci hanno raccontato che anche da loro comanda il papà e la mamma deve star zitta, soprattutto se c’è qualche estraneo.
- Eh, un pochino, sì, Margherita, era così anche da noi. La mamma spesso doveva portar pazienza e stare zitta. Guai se si giustificava o rispondeva per le rime. Tutt’al più brontolava; e questo, mio padre, glielo concedeva. Al termine del pranzo la mamma spazzava le stanze e lavava i piatti nel secchiaio.
- Usava l’acqua calda?
- Sì, usava l’acqua calda, che però non usciva dal rubinetto, come oggi. La mamma, dopo aver mangiato la minestra, prendeva una pentola di alluminio, la riempiva d’acqua alla pompa del secchiaio, alzava due o tre anelli centrali della stufa a legna della cucina, li spostava da un lato e metteva la pentola a contatto col fuoco. Così, quando tutti avevano terminato di mangiare, l’acqua era bollente e poteva cominciare a lavare piatti e stoviglie. Quando eravamo a casa da scuola eravamo noi bambini a pompare l’acqua nella pentola e, se non era troppo pesante, a portarla sulla stufa.
- Ma il secchiaio, nonno, com’era?
- Era formato da una grande pietra rosa con i bordi rialzati, incastrata nei due muri d’angolo. La lastra era inclinata verso la parte in cui c’era il buco da cui scendeva l’acqua di scarico che andava a finire nel fossato dove d’inverno facevamo le sbrissiarole. La grande stanza del secchiaio non aveva riscaldamento; era umida e freddissima.
La moscarola
Vicino al secchiaio c’era la moscarola, una grande gabbia, più alta che larga, formata da una struttura di aste di legno avvolte da una rete a maglie sottili. In uno dei lati c’era una parete che si apriva verso destra e che consentiva di mettere all’interno, su due ripiani in legno, i vari cibi.
- Perché si chiamava moscarola?
-Secondo voi, perché?, sentiamo…
-Perché serviva per prendere le mosche…
-Le mosche c’entrano, ma non serviva per prendere le mosche. La moscarola proteggeva i cibi dalle mosche. Essendoci, vicino alla casa, la stalla con tanti animali, d’estate c’erano tantissime mosche anche in casa, nonostante si tenessero le porte e le finestre chiuse.
- Ma non potevate mettere i cibi nel frigo?
- Ma dai, Alida, allora non c’erano i frigoriferi, intervenne Margherita.
- Proprio così. I frigoriferi e i freezer non c’erano ancora e i cibi si conservavano per alcuni giorni proprio nella moscarola, che veniva appesa con quattro spessi fili di ferro alle travi della stanza più fresca della casa con quattro grossi chiodi. Nella moscarola i cibi erano al sicuro anche dalle possibili incursioni dei topi.
Ma moscarola era anche il nome che si dava ad altri oggetti diversi, che servivano per catturare le mosche. E quindi anche Alida aveva ragione.
Innanzi tutto c’erano dei piccoli cilindri in cartone che avevano all’interno un nastro ricoperto da una sostanza collosa ed appiccicaticcia gialla alla quale si attaccavano le mosche, che non riuscivano più a liberarsi. Le compravamo da Pastorìn. Il cilindro aveva un coperchietto di cartone che si staccava e si buttava. Spuntava un’asola che era unita al nastro con la colla gialla. Si tirava l’asola tenendo fermo il cilindretto di cartone ed usciva, srotolandosi, tutto il nastro. A noi bambini piaceva molto questa operazione, ma dovevamo essere in due, perché le nostre braccia corte non riuscivano ad aprire tutto il nastro. Bisognava stare molto attenti a non toccare il corpo o le braccia col nastro, se no erano guai.
- Perché nonno?
- Perché il nastro si appiccicava ai vestiti e alla pelle, come è successo a me una volta che avevo voluto far tutto da solo. Avevo rovinato la maglietta; sulla pelle la mia mamma aveva fregato col bruschìn da strépole, aveva premuto su e giù con le setole gialle della spazzola per molto tempo e la mia pelle si era arrossata tutta.
‘No, basta!’, strillavo.
‘Un’altra volta farai a meno di fare cose che non si devono fare?, replicava la mamma.
‘Sì, sì, ma adesso basta!’.
La lezione non si poteva dimenticare.
Nel giro di poche ore, se le mosche erano tante, il nastro diventava nero.
- Perché cambiava colore?
- Perché si riempiva di mosche che vi si appiccicavano, no?, intervenne Margherita. Però, che schifo!
La colla del nastro era piena di una sostanza zuccherina che attirava le mosche. Quando non ci stavano più mosche sul nastro, i fratelli più grandi staccavano il nastro, lo prendevano con due dita dall’asola e lo passavano a noi piccoli, che avevamo il compito di buttarlo nella buca dietro casa, vicino al vigneto, trascinandolo a terra.

8.La ‘raccolta differenziata’


- Che buca era?
- Era una grande buca, dalla quale noi bambini dovevamo stare alla larga, scavata dal papà con la vanga. Lì venivano scaricati tutti i rifiuti secchi della casa. Una volta al mese papà gettava uno strato di terra sopra i rifiuti, in modo che la buca non diventasse un luogo troppo frequentato dai topi. Invece i rifiuti organici venivano dati da mangiare, quando era possibile, ai cani, ai gatti o ai maiali. Quello che restava veniva buttato sul letamaio.
- Già allora facevate una specie di raccolta differenziata...
- Proprio così, Margherita. Però dovete pensare che tutto quello che poteva essere usato ancora veniva riciclato: il ferro e il legno finivano nella càmara marangon, la plastica non esisteva, la carta era preziosa e se ne usava pochissima.
La moscarola di vetro
Poi, per prendere le mosche c’era un altro oggetto, più antico di quello che vi ho descritto prima, che a me piaceva moltissimo guardare. Anche questo veniva chiamato, genericamente, moscarola.
Era tutto di vetro: nella parte inferiore un piattino con un solco circolare veniva riempito di acqua e zucchero. Guardate: ne ho conservata una da llora. Vado subito a prenderla!
... Come potete vedere copriva questo piattino una sorta di campana di vetro che arrivava fin quasi all’acqua lasciando, sotto, la possibilità alle mosche di passare.
Le mosche, attratte dallo zucchero, entravano e poi non riuscivano più ad uscire e finivano annegate.
Passavamo delle ore, io, Paolo e Danilo, a guardare il comportamento delle mosche e scommettevamo su quello che sarebbe successo. In palio una figurina dei calciatori.
Uno diceva: ‘Vedrai che per prima ci va dentro quella mosca lì appoggiata sul bordo, e inventavamo sul momento un nome: Moretta.
‘No, diceva l’altro, entrerà per prima quell’altra lì, Brunetta’.
E aspettavamo l’esito.
Spesso era una nuova mosca, appena arrivata, che entrava per prima, incosciente del pericolo e della fine prossima.
- Capitava che qualche mosca finisse sul cibo?
- Quando la mamma preparava la tavola, aveva l’avvertenza di coprire con un tovagliolo tutti i cibi, perché le mosche non lasciavano tregua. Talvolta però, capitava che sulla minestra fumante qualche mosca ci lasciasse le ali. Allora la mamma prendeva il cucchiaio e toglieva la mosca.
Se qualcuno di noi vedeva la scena, protestava.
Ricordo che Anna, un giorno, dopo che la mamma aveva fatto quell’operazione, disse: ‘Io quella minestra lì non la mangio. La butto via e me ne prendo dell’altra’.
‘Non provare nemmeno’, disse serio papà.
‘Io non la mangio’, ribatté Anna.
‘Va bene, fa’ a meno, se vuoi; la mangerai stasera’.
La sera Anna resistette per un po’, ma poi venne a più miti consigli, perché sapeva che papà non avrebbe cambiato idea e avrebbe dovuto mangiarla il giorno dopo.
‘Non si deve sprecare mai il cibo; c’è tanta gente che non ha niente da mangiare’, diceva.
Era inutile ripetere che in quella minestra si era annegata una mosca. Conoscevamo a memoria la risposta: ’na mosca no la gà mai copà gnissun, una mosca non ha mai ucciso nessuno.
Un altro strumento per catturare le mosche erano le palette leggerissime in legno che aveva realizzato nella càmara marangon lo zio Sereno.
Il manico era fatto con filo di ferro grosso; la paletta era costituita da uno strato sottile, ma resistente, di non so che tipo di legno elastico.
In alcuni uggiosi pomeriggi d’estate facevamo delle gare a chi riusciva a schiacciare più mosche. Per le mosche, come per i topi e per gli insetti nocivi alle piante non c’era alcuna pietà: non erano considerati utili, erano dannosi, quindi andavano eliminati.
- Eravate piuttosto crudeli!
- Hai ragione, Margherita, però, allora, tutti facevano così e si faceva una netta distinzione tra animali utili, animali innocui e animali dannosi.
Le prime due specie era giusto che fossero rispettate, la terza andava combattuta, in tutti i modi.


 9. Le maréciole


- Nonno, hai parlato prima dei topi. Appartenevano alla seconda o alla terza specie?
- Alla terza, Margherita. Ce n’erano proprio tanti. Erano di due tipi diversi: quelli piccoli, le maréciole e quelli grossi, i rati. In casa avevamo spesso visite di maréciole. - Che schifo!
- Anche le mie sorelle, Anna e Luisa, provavano ribrezzo per i topolini. Capitava che delle maréciole, venendo dall’aia o dal buco di scarico del secchiaio, si facessero vedere anche in cucina. Una vamo inginocchiati sulle sedie a recitare il rosario, Renzo disse : ‘Varda ‘na maréciola là adrìo’, guarda un topolino là lungo la parete! Immediatamente le mie due sorelle e la mamma si alzarono in piedi sulla sedia gridando. Io e Renzo andammo nella camera del secchiaio a prendere due scope, stando attenti che il topo non tornasse indietro e scappasse. Appoggiai la scopa al muro, presi uno straccio, lo strappai a metà e chiusi prima il buco (fatto negli anni precedenti da altri topi) in basso sulla porta di legno tra la cucina e il secchiaio e poi quello sulla porta tra la cucina e la saletta d’ingresso. A questo punto la maréciola non poteva più scappare. Bisognava però stanarla; chissà dove si era nascosta! Guardammo sotto il camino, niente! Sotto la credenza, neppure! Sembrava scomparsa. Sapevamo che i topi sono furbissimi. ‘Sarà andata nella saletta prima che ci mettessi lo straccio’, disse Anna.
‘No, no, ho visto che è andata sotto la credenza’, disse Renzo. ‘Dai che proviamo a spostare dal muro la credenza’, disse papà. ‘A volte i topi rimangono fermi in equilibrio tra il mobile e il muro. Stiamo attenti, però a non rovesciare la vetrina. Dacci una mano anche tu, Luisa’.
‘No, io ho troppa paura, non mi muovo di qui’.
‘Dai tu, allora, Olga’, disse rivolto alla moglie.
Facendo violenza a se stessa, mia madre si avvicinò al mobile e, in quattro, riuscimmo a spostarlo senza farlo ballare troppo. Ma la supposizione di mio padre non si rivelò esatta. Nessuna traccia della maréciola.
‘Ma l’hai vista bene, Renzo o te la sei inventata?’, chiese papà. ‘L’ho vista benissimo, e non è neanche tanto piccola’. ‘Allora, Olga, vai fuori, prendi il gatto e torna qui. Tu Luigi, chiudi immediatamente la porta e tura di nuovo il buco con lo straccio’. La mamma sembrava non ritornare mai. Intanto noi spostammo ulteriormente la credenza in modo da passarci dietro. ‘Guarda qua sotto, disse Renzo: c’è un buco. La mareciola può essere entrata dentro la credenza da qui’.
‘Ma è troppo piccolo questo foro’, dissi io.
‘No, guarda che le maréciole si appiattiscono e passano da buchi molto piccoli’.
Aprimmo gli sportelli in modo da controllare all’interno. Finalmente tornò la mamma col gatto bianco e nero (ce n’erano sempre quattro o cinque in corte). Tappai di nuovo il buco della porta. La mamma lasciò andare il gatto che era assolutamente tranquillo e indifferente; prese la scopa e salì di nuovo sulla sedia. Papà cominciò a spostare piatti e scodelle.
Ad un tratto il topolino sgusciò via; mia madre alzò la scopa, dette una botta sul pavimento sollevando soltanto un po’ di polvere, mentre il gatto con un balzo, afferrava la maréciola che si era diretta verso il buco della porta d’ingresso. Eravamo tutti contenti della conclusione, quando il gatto scrollò la testa due o tre volte allentando la presa e la maréciola riprese la sua corsa.
Le mie sorelle e mia madre salirono di nuovo sulle sedie mentre il gatto la riafferrava per poi lasciarla ancora. La riacciuffava, la mordeva con i suoi dentini aguzzi e poi la lasciava di nuovo. Sembrava volesse giocare con lei, o torturarla, o, forse, prenderla in giro. Finalmente l’ultimo morso e un sospiro di sollievo da parte di tutti. Quindi rimettemmo al suo posto la credenza e riprendemmo la recita del rosario.

 10.  Il rosario
- Ma recitavate spesso il rosario?
- Ma che cos’è il rosario?
- Vuoi spiegare tu Margherita ad Alida che cos’è?, disse il nonno Gigi.
- Va bene. Il rosario è una lunga preghiera in cui si ripetono 50 Ave Marie, 5 Padre nostri, 5 Gloria, la Salve Regina e le litanìe.
- A casa nostra il rosario, in latino, lo recitavamo tutte le sere. - Sai che barba?, disse Margherita. In latino, poi. Ci capivate qualcosa?
- Ma eravate obbligati a recitarlo?, aggiunse Alida.
- In effetti nessuno di noi capiva il latino, se non forse, mio fratello Renzo che l’aveva studiato. Tutti dovevamo metterci in ginocchio sulle sedie impagliate con la carezza, la càrice, durante l’inverno dal nostro papà e con i gomiti appoggiati alla tavola in marmo bianco, freddissima.
- Anch’io, ogni tanto dicevo: ‘Uffa, che barba, anche stasera!’, ma Luisa mi rimproverava dicendomi: ‘Stai zitto, che non ti senta il papà’.
E così, per un quarto d’ora, si ripeteva ogni sera il rito.
Prima di cominciare c’era la disputa su chi doveva intonare il rosario, cioè recitare la prima parte delle preghiere da solo. Spesso la lasciavano dire a me: così disturbavo meno.
- Perché, cosa facevi?
- Ogni tanto, mentre Luisa o Anna recitavano l’Ave Maria, me ne uscivo con qualche battuta o riportavo sottovoce qualche episodio della giornata, oppure facevo riferimenti ai loro spasimanti.
Per un po’ il papà stava zitto, poi, quando riteneva che avessi superato il limite, mi diceva: ‘Le tue preghiere le se ferma a la napa del camìn, si fermano alla cappa del camino’.
Se continuavo, mi diceva: ‘ Adesso va’ di là, nella camera del secchiaio e torna quando hai intenzione di non fare più stupidade’. Di solito il mio ‘esilio’ durava poco, perché di là c’era un gran freddo e tornavo a testa bassa e silenzioso.
Il mio divertimento più grande era però quello di fare il solletico alle mie sorelle.
Con la coda dell’occhio guardavo dove avevano i piedi; con un colpo facevo cadere la ciabatta e poi con la mano facevo il solletico. Se la sorella era dall’altra parte della tavola, con il pretesto di raccogliere qualcosa, camminavo gattoni sotto la tavola, mi avvicinavo al piede, toglievo la ciabatta e facevo il solletico.
La reazione non si faceva attendere: le mie sorelle prendevano l’altra ciabatta e me la lanciavano. Spesso la loro mira era imprecisa. Talvolta però colpivano il bersaglio. E allora erano pianti.
Il mio papà interrompeva la recita e diceva: ‘Quando siete tranquilli riprendiamo’. E a questo punto dovevo anch’io rientrare nei ranghi.
Una sera, quando la misura era colma, perché non lasciavo in pace un minuto le mie sorelle e la mia mamma, vidi mia madre scattare; prese in mano la ciabatta prendendo la mira. Io mi alzai, per scappare nella sala d’entrata; mia madre lanciò e colpì, rompendolo in mille pezzi, il vetro della finestra.
Fui mandato in castigo nella camera del secchiaio e non mi azzardai a rientrare, finché, dopo oltre un’ora, mio padre mi fece chiamare per chiedere scusa alla mamma e a tutti. E stetti ben attento a non ridere mentre facevo le scuse, come mi era capitato altre volte, altrimenti sapevo come sarebbe andata a finire.
- Come sarebbe andata a finire, nonno?
- Il rischio era un’esemplare punizione! Ma quella sera, mentre ero di là, al buio, dietro la porta, sentivo che il papà richiamava la mamma: ‘Però, anche tu, a tirargli dietro la ciabatta!’.
‘El m’ha proprio tirà a ziménto’, ‘mi ha proprio tirato a cimento’.
‘Eh, ma l’è sangoe che cresse; gh’è da copàrlo parché ‘l staga fèrmo on minuto’? , ‘è sangue che cresce; bisogna ammazzarlo perché stia fermo un momento’?, le aveva risposto il mio papà con mia grande sorpresa, perché non pensavo che prendesse le mie difese.
Quando Anna o Luisa erano colpite da palline di mollica in testa o in varie parti del corpo, immediatamente scattava la protesta nei confronti di Renzo, che era lo specialista di questo tipo di lancio: metteva la pallina, piccola e dura, tra l’indice piegato e il pollice, e poi, zac, un colpo secco.
‘Piantala, basta! Uffa, che noioso!’, dicevano. Io cercavo di imitarlo, ma i miei lanci erano quasi sempre deboli ed imprecisi.
Qualche sera, soprattutto con la bella stagione, sentivo che i cugini stavano giocando sul zélese, sull’aia, ed allora fremevo, impaziente di unirmi a loro, che non recitavano mai il rosario.
Una sera in cui recitavo particolarmente malvolentieri le preghiere, chiesi al papà:‘Ma perché noi dobbiamo dire sempre il rosario e loro no?’.
La risposta fu: ‘ Chi altri che i faga qul che i vole; par noantri va ben cossì’, gli altri facciano quello che vogliono; per noi va bene così, hai capito?’
No, non avevo capito e rifeci il giorno dopo la stessa domanda alla mamma: ‘Non ti sembra che il papà esageri col rosario?’.
Mi dette una risposta che non mi aspettavo: ‘Ricordatelo bene, adesso e anche quando sarai grande: nella vita ci sono degli avvenimenti che lasciano un solco che non si cancella. Il tuo papà in guerra ha visto la morte in faccia; molti suoi compagni ed amici sono morti e lui ha fatto un voto: se gli fosse stato concesso dalla Madonna di tornare dai suoi bambini, cioè da voi, avrebbe recitato con loro tutte le sere il rosario.
‘E per tutta la vita?’, le chiesi con un filo di voce. Ma non ebbi risposta.
Dopo qualche settimana, al termine della recita del rosario, papà Silvino mi disse:
‘Vedo che ti sei fatto ometto, bravo!’.
E ricevere un complimento così da papà era il massimo, ve lo assicuro.
(Continua ...)
11.I ratti

Dei ratti tutti avevamo paura.
Dicevano gli uomini e le donne: ‘ste’ distante dai rati, parché i se gira de colpo e i te taca. E non se sa ben cossa capita dopo: te pol malarte e anca morire; non andate troppo vicino al ratto, perché si gira di scatto e morde. E non si sa quali siamo le conseguenze del morso: certo molto brutte, a volte mortali’.
Alle Barolde di ratti, belli grossi, ce n’erano molti, in vari luoghi. Per esempio, quando d’inverno andavamo nella stalla a fare filò, ogni tanto...
- Anche voi facevate filò? Io ho visto con la mamma e il papà la commedia ‘La lucerna del filò’: bellissima, con Giovanni, Nella, Luigi e Maria Modena, ti ricordi Alida?
- Sì, mi era piaciuta tantissimo la scenetta di San Serafin!.
- Anche a me!
- E tutti, nella stalla, seduti sulle … di paglia
- Balle, si dice, balle di paglia.
- Ma nonno…!
- Si dice proprio così; non è sempre una parolaccia!...
Anche noi alle Barolde facevamo, qualche volta, filò. Lì, ogni tanto, sulle grosse travi di legno del soffitto ne vedevamo uno.
La cosa migliore, dicevano i grandi, era far finta di niente: come erano venuti, così se ne sarebbero andati. Anche perché nella stalla sarebbe stato impossibile dar loro la caccia, tra mucche, vitellini e tutti i passaggi e i buchi nei quali avrebbero potuto infilarsi con grande facilità.
Dietro la casa, alla base del muro vicino alla scaletta della porta posteriore, c’erano dei buchi grossi e profondi sul terreno. Eugenio, il salariato addetto alla stalla …
- Cosa vuol dire, nonno, salariato?
- Significa che riceveva un salario, una paga per il lavoro che svolgeva… noi lo chiamavamo in dialetto ‘el boaro’, ma era una parola che i nostri genitori non volevano che noi usassimo.
- Perché nonno?
- Perché era un termine che aveva un significato dispregiativo, come se quel lavoro fosse disonorevole, e non stava bene usarla...
Dicevo che Eugenio sosteneva che quelle erano gallerie scavate dai ratti, che passavano sotto la casa e finivano chissà dove.
Ne parlavamo tra noi ragazzi e volevamo scoprire dove finissero.
‘E se riuscissero a fare dei buchi sul pavimento ed entrare in casa?’.
‘Ma no, sotto il pavimento c’è il cemento e i ratti non bucano il cemento’.
‘Guarda che non è vero, perché nel magazzino, dove il pavimento è tutto in cemento ci sono dei buchi fatti proprio dai ratti’.
‘Non, non è vero, te lo inventi!’.
‘Scommettiamo?’.
‘Andiamo a vedere!’.
Così, subito dopo pranzo, quando gli uomini erano a letto prima di riprendere il lavoro, andammo a prendere l'ampollina dell'olio in camara marangon, versammo qualche goccia sul catenaccio in modo che non cigolasse quando l'avessimo aperto, entrammo socchiudendo la porta e guardammo se c’erano i buchi di cui aveva parlato Paolo.
Era proprio vero: tra il pavimento e il muro c’erano due buchi proprio grossi.
Secondo me, dissi, i ratti non son venuti da sotto, ma dall’altra sala del magazzino’.
‘Possiamo guardare di là, per saperlo con precisione’, disse Paolo.
‘E’ vero, risposi, ma come facciamo ad andare di là se c’è il lucchetto alla porta?’.
‘Io so dov’è la chiave, disse Paolo, ma non mi azzardo a prenderla, perché, se mio padre mi scopre, son guai!’.
'C’è un altro modo per saperlo’, dissi. ‘prendiamo un lungo ferro rigido e inseriamolo nel buco: se passa di là, parallelo al pavimento, significa che i ratti vengono dall’altra sala, se no...’ Gli altri approvarono.
Prendemmo una lunga asta in ferro appoggiata al muro e la inserimmo nel buco. Tenendola parallela al pavimento, l’asta si fermava subito. Se invece la si inclinava molto penetrava tutta fin sotto terra.
Dunque i ratti venivano proprio da sotto e avevano fatto due grossi buchi nel cemento.
Tutti e tre fummo assaliti dalla paura.
Danilo suggerì di buttare alcuni secchi d’acqua per ‘annegare’ i ratti. Ma la proposta non convinse né Paolo né me, perché sapevamo che i rattti non temono l’acqua. Paolo propose invece di buttare nei due buchi cocci di vetro di bottiglia e di chiuderli col cemento, come aveva visto fare in altre occasioni da suo padre. Il cemento lo si poteva prendere con un secchio vicino al porcile, dove il suo papà, Severino, stava sistemando una parete del magazzino. Detto fatto, andai a prendere nella buca dei rifiuti 6 o 7 bottiglie rotte, Paolo e Danilo un secchio di malta abbastanza magra.
- Cosa vuol dire magra?
- Significa che è composta da poca calce e molto cemento. Così è molto più dura da rompere.
Spaccammo con un martello preso nella càmara marangon i vetri in tanti pezzettini e cominciammo a gettarli nei buchi, standone un po’ lontani per paura che in quel momento uscisse un ratto.
Quando non scendevano più, Paolo, girando il martello dalla parte del manico li spinse il più a fondo possibile. Poi, con la cazzuola, Danilo, che sembrava il più esperto, coprì i buchi con un grosso strato di malta. Quindi in fretta riportammo il martello al suo posto, la malta avanzata dove l’avevamo presa e lavammo il secchio alla pompa sotto la ba
rchessa, facendo il minor rumore possibile perché i grandi non ci scoprissero..


12. I ratti, di notte

La sera, quando andai a letto, non fu una sera come tutte le altre. Continuavo a pensare a quei buchi fatti dai ratti sotto la casa, al cemento che erano riusciti a forare. E quando sentii, come tutte le altre sere, passare i ratti sopra il soffitto della mia camera da letto, fui preso da una grande paura.
Avevo sempre sentito scorrazzare i ratti; il mio papà mi aveva sempre detto che facevano solo rumore: correvano lungo tutte le soffitte, da un granaio all’altro, in cerca di cibo, ma non c’era da temere: c’erano le assi molto spesse del pavimento del soffitto e, sotto di esse, le arèle, che non avrebbero permesso al topi di entrare in casa.
- Cos’erano le arèle?
- Era un canniccio, un insieme di canne rivestito di intonaco con cui un tempo si finivano i soffitti...
Dopo ciò che avevo visto quel pomeriggio, non riuscivo però a stare tranquillo, tanto più che in casa nostra c’era un punto particolarmente vulnerabile.
- Cosa vuol dire?
- Un luogo dove i ratti potevano entrare.
- E qual era?
- La cameretta che si attraversava prima di entrare nel gabinetto.
- Ah, allora avevate il gabinetto in casa, voi. Per-ché mi ha detto la mamma che nelle case di campagna il gabinetto era fuori.
- Dopo ti racconto del gabinetto, Margherita.
- Sì, meglio, così finisci di parlare dei ratti, disse Alida.
- Quella cameretta aveva il pavimento di circa 40 centimetri più basso di quello delle camere da letto e del corridoio ed era la prosecuzione del pavimento delle assi dei magazzini che erano dall’altra parte del muro. Lì varie volte i ratti avevano fatto dei buchi ed ogni volta il papà aveva chiuso i fori con delle latte inchiodate al muro.
- Come, latte? Esclamò Alida.
- Alida..., non era una bevanda, era la latta, una lastra di metallo, non il latte. Anche se qualche ratto fosse arrivato alla cameretta, non sarebbe potuto entrare nelle camere da letto perché c’era una porta robusta, a perfetta tenuta, con una grossa latta nella parte inferiore, che fregava un po’ sul pavimento e che chiudevamo sempre col catenaccio, alla fine del corridoio. Ma quella sera vedevo buchi e ratti dappertutto, anche nel mio letto. Dormivo in camera assieme mio fratello Renzo, di 10 anni più vecchio di me. Dopo non so quanto tempo, riuscii finalmente a prendere sonno. Nel cuore della notte, però, mi svegliai di soprassalto e mi accorsi di essere tutto bagnato: mi ero fatto la pipì addosso.
- Così grande, nonno?
- Eh, proprio così. Mi misi a piangere. Renzo, svegliatosi di soprassalto, andò a chiamare la mamma. Lei mi portò giù dalle scale, mi lavò con un panno bagnato e poi mi accompagnò nel lettone coccolandomi. Mi dispiaceva di aver fatto quella figura da bambino piccolo piccolo, ma ero contento di trovarmi, dopo tanti anni, su quel letto con mamma e papà, a contatto con i loro corpi. Raccontai alla mamma i miei incubi e mi addormentai al sicuro.
Il pomeriggio del giorno dopo il mio papà, invece di andare nei campi, si mise al lavoro prima nella cameretta, togliendo le latte e cementando tutti i fori, e poi in soffitta, nei granai, dove mise varie esche velenose per ratti e chiuse col cemento tutti i buchi che c’erano.
I ratti del porcile

Qualche mese più tardi, in dicembre, subito dopo Santa Lucia, il mio papà e lo zio Severino decisero, prima di ammazzare il maiale, di fare pulizia intorno e sotto i porcili. Durante quell’operazione avevano ucciso col badile parecchi ratti e nell’intervallo del lavoro per il pranzo, avevano lasciato lì tutto, ratti e badili. Io e Paolo avevamo visto quel che era successo.
Decidemmo di fare uno scherzo alle sorelle. Prendemmo con i badili i ratti, li trasportammo uno ad uno vicino alla legnaia; prendemmo uno spago piuttosto grosso, legammo tutte le code e appendemmo alla porta della legnaia una decina di ratti.
Poi andammo alla ricerca delle sorelle.
Quelle di Paolo erano già sedute a tavola; invece era appena uscita dalla porta di casa, forse per chiamarmi, mia sorella Luisa.
‘Luisa, vieni, abbiamo trovato una bella collana nella legnaia, vieni!’, le dissi con estrema serietà, mentre Paolo, girato dall’altra parte rideva a crepapelle.
‘Non fare scherzi, ah!’, disse lei.
‘Vieni e vedrai’.
Quando fu abbastanza vicina, le dissi: 'E' una collana di topazi’ eccola!
Alla vista di tutti quei grossi topi si mise a correre e a ad urlare: ‘Stupidi, scemi, sono scherzi da fare?’.
(Continua ...)

 13.  I gabinetti


- Mi avevi chiesto, prima, Margherita, dei gabinetti.
- Sì, perché la mamma mi ha raccontato che in campagna una volta non avevano il gabinetto in casa.
- Generalmente era vero. Erano pochissime le case col gabinetto. Noi eravamo tra i fortunati. Ci raccontava il papà che il nostro gabinetto era stato costruito ancora prima della prima guerra, cioè un po’ più di cent’anni fa.
- C’erano il vater, il bidet e il lavandino?
- Non c’era niente di tutto questo, Alida. Molto più semplicemente c’era un buco largo come un CD al quale era collegato un grosso tubo che finiva sopra una larga e profonda fossa, che, quando era piena, veniva svuotata.
- E chi la svuotava? Veniva un camion con l’autobotte? - No, tesoro; veniva svuotata dai nostri genitori e dal salariato con le pale di latta. Veniva caricato tutto su un carretto con le sponde e poi veniva scaricato allo stesso modo nel letamaio.
- Sai che puzza?
- Sì, è vero; le donne per un paio di giorni tenevano porte e finestre di casa chiuse, e questa operazione veniva fatta nelle stagioni fredde, in modo che ci fosse meno puzza.
- Avevate almeno la carta igienica?
- Nemmeno quella. E’ da pochi anni che è in vendita la carta igienica.
- E allora, cosa usavate?
- La carta di giornale. Per casa nostra compravamo diversi giornali: per il papà e la mamma il quotidiano “Il Gazzettino” e il settimanale “Orizzonti”, per le ragazze “Alba” e qualche volta “Mani di Fata”, per noi bambini “Il Vittorioso “ e, qualche volta, “Il Corriere dei Piccoli”.
Il giornale più adatto per il gabinetto era “Il Gazzattino”, perché aveva la carta più ruvida: ogni due o tre sere, assieme ai miei fratelli, piegavamo il giornale, prendevamo un lungo coltello affilato e tagliavamo tanti rettangoli di carta, tutti uguali, che poi infilavamo nel grosso chiodo con la punta all’insù che era stato cementato in gabinetto sulla parete vicina al buco. La carta, dopo essere stata usata, veniva gettata nel buco. Se sporcavamo il pavimento versavamo un po’ d’acqua col secchio che riponevamo nell’altro angolo; pulivamo le piastrelle con una scopa a setole dure e acqua; poi prendevamo il grande tappo di legno, fornito di un lungo manico, per chiudere il buco; così si evitava che i cattivi odori entrassero nelle camere da letto. Chi, dopo aver versato l’acqua, vedeva che non ce n’era più, era tenuto a riempire il secchio giù al secchiaio ed a riportarlo su. Per evitare questa incombenza una volta non pulii: così, pensai, il secchio l’avebbe riempito chi veniva dopo.
- E l’hai fatta franca, nonno? - Proprio no, perché Anna, mia sorella, avendo trovato il gabinetto sporco mi aveva mandato a prendere l’acqua col secchio e a pulire per direttissima.
- E d’inverno?
- D’inverno, non essendoci riscaldamento, il gabinetto era freddissimo e l’acqua del secchio gelava. Per usarla, occorreva spaccare la lastra di ghiaccio, formatasi sulla superficie, con un bastone che tenevamo pronto nella cameretta accanto.
Per evitare di prendere troppo freddo, di notte, utilizzavamo il vaso da notte in camera da letto. Avete visto ancora un vaso da notte?
- Io no!
- Nemmeno io!
- In veranda ne abbiamo conservato uno. Vado a prendervelo. Aspettatemi un attimo!
- Fa’ presto, però, nonno!...
- ... Eccolo!
- E vi sedevate sopra come i bambini piccoli?
- Per fare la pipì lo tenevamo in mano e poi lo mettevamo sotto il letto.
- E dopo, chi lo puliva?
- La mamma o le sorelle maggiori, che aiutavano la mamma nei lavori domestici. 

14 IL VASO DA NOTTE

Vi ho detto che la mia sorella maggiore, Luisa, si era innamorata di Gelmino, un ragazzo che, dopo essersi diplomato all’Istituto tecnico era stato assunto alla Montecatini di Ferrara. Subito dopo il diploma, aveva chiesto al papà la mano di Luisa. - Cosa significa, nonno, chiedere la mano? - Significa chiedere di diventare il moroso, cioè il fidanzato della figlia. Te l’ho già spiegato, ti ricordi? Le sere del sabato e della domenica e, qualche volta, del giovedì, Gelmino arrivava con la sua bici sul zélese sempre alla stessa ora e suonava due colpi di campanello; Luisa si alzava di scatto per aprire la porta e si sedevano nella saletta d’entrata sul divano in vimini comprato per l’occasione dai miei genitori. Spesso io e Paolo, cinque o dieci minuti prima che arrivasse il moroso, uscivamo sull’aia, prendevamo una bicicletta con un campanello che assomigliava a quello di Gelmino e scampanellavamo. Subito dopo fuggivamo sotto il portico per osservare la scena da dietro la porta della stalletta dei cavalli. Luisa usciva, non vedeva nessuno e si metteva in agitazione, pur immaginando che eravamo stati noi bambini a fare uno scherzo. La raccomandazione costante della mamma era di non passare dalla saletta per non disturbare e, se proprio era necessario, di bussare prima alla porta. A me non piaceva molto questa regola e cercavo tutte le occasioni possibili per uscire e rientrare in casa o per salire nella mia camera da letto. Una sera Luisa, mentre stavo passando per salire in camera, soddisfatto nel vedere con la coda dell’occhio che si allontanavano un po’ l’uno dall’altro ad ogni mio passaggio, mi disse seccata: ‘E allora, hai finito di fare la processione avanti e indietro?’
La mia stanza da letto era proprio sopra la sala d’ingresso dov’erano seduti i morosi; il pavimento era di assi di legno. Pertanto nella stanza sottostante si sentivano, amplificati, tutti i rumori provenienti da sopra. Non risposi nulla a Luisa, salii in camera, tirai fuori da sotto il letto el bocàle, il vaso da notte in ferro smaltato e cominciai a fare la pipì contro le pareti del vaso. La facevo il più lentamente possibile, in modo che durasse molto a lungo. Sentii la voce di Luisa, sotto, che diventava sempre più forte. Raccontava a Gelmino il film che aveva visto al cinema parrocchiale la domenica prima: io sentivo tutto distintamente. La mattina dopo, Luisa mi chiamò: ‘Vieni qua, tu’. ‘Cosa c’è?’, chiesi facendo finta di nulla. ‘Sei un bel maleducato a fare la pipì in camera. Potevi andare al gabinetto, no?’. ‘Non ce la facevo più a tenermi’, mentii. ‘Allora potevi andare fuori, giù dal zélese’, dall’aia. ‘E no!, le risposi, così mi sarei perso la trama del film’. ‘Brutto stupido, l’hai fatto apposta! Toh!’ E mi dette un sonoro ceffone. Incassai senza dire altro, perché sapevo di meritarmelo. - Eri tremendo, però, nonno. - Eh, devo ammetterlo, ho combinato le mie. Adesso, però, la mamma vi sta chiamando perché ora di tornare a casa. Continueremo la prossima volta.


 15 Liberi, ma…


- Ma perché voi bambini una volta potevate fare quel che volevate, andare dappertutto da soli, e noi oggi, per andare anche poco lontano, dobbiamo avere sempre alle costole il papà o la mamma o uno dei nonni? - Mi hai fatto una domanda alla quale non è facile dare una risposta, Margherita... Sono cambiate molte cose, rispetto ad una volta. Per esempio, quand’ero bambino circolavano pochisssime macchine.
- Cosa c’entrano le macchine, nonno?, disse Alida.
- C’entrano, vedrai…
- Alle Barolde, nonno, chi aveva la macchina?, chiese Alida. - Quando Alberto, il cugino più vecchio, acquistò la prima auto alle Barolde, una seicento, io avevo già 17 anni. Quando eravamo bambini, invece, in tutto il nostro paese ci saranno state sì e no dieci auto. E così pure negli altri paesi vicini. Quindi non c’era il pericolo che i bambini fossero investiti dalle macchine. I bambini avevano tanti spazi aperti per giocare e correre. E poi, in genere, anche le mamme, come i papà, lavoravano nei campi ed erano a casa solo in pochi momenti della giornata: al mattino per la colazione, a mezzogiorno, la sera dopo il lavoro. Quindi noi bambini dovevamo arrangiarci e organizzare il nostro tempo: fare i compiti da soli e giocare. La fantasia non ci mancava. Quando tornavamo da scuola sapevamo che la nostra prima attività era quella dei compiti. Li facevamo guardando fuori dalla finestra, per vedere se Paolo, Danilo, Sandra e Giuliana fossero già sull’aia. Nessuno tra quelli che avevano già finito si sarebbe sognato di chiamare chi era intento all’esecuzione: sarebbe stato sicuramente punito dai suoi genitori. Ma una volta finiti i compiti, compreso lo studio delle poesie a memoria, che erano sempre tante, tutto il tempo era per i giochi.
- Ma davvero dovevate imparare tante poesie a memoria?
- Sì, e non le imparavamo volentieri, ma, devo dirvi la verità, tutte le poesie che ancora ricordo bene le ho imparate allora. E adesso rimpiango un po’di non averne fatte imparare abbastanza ai miei alunni delle scuole medie quando facevo l’insegnante.
- Beh, meno male per loro….
- No, Margherita, credi… l’esercizio della memoria, anche attraverso lo studio delle poesie, è molto importante: apre la mente ed arricchisce la tua cultura.
- E, cambiando un po’ discorso, fra di voi bambini litigavate?, chiese Alida. - Ogni tanto c’era qualche litigio, soprattutto tra me e Paolo. Erano lotte vere, per dimostrare chi era il più forte: ci si ruzzolava a terra e si cercava di immobilizzare l’avversario. Le nostre mamme ci dicevano sempre: ‘I vostri fratelli più vecchi, Renzo e Romano, quando avevano la vostra età, non litigavano mai, giocavano insieme, andavano sempre d’accordo; voi, invece...’. L’importante era non coinvolgere gli adulti nelle nostre baruffe, altrimenti...
- Altrimenti cosa?
- Altrimenti, Alida, non ce la saremmo cavata bene. Una volta che mi ero lamentato fortemente con la mamma per un pugno che Paolo mi aveva appioppato durante una lite, ricevetti una lezione che non mi sono più dimenticato. ‘Dopo lo dico al tuo papà, quando torna’, mi disse. Il papà, infatti, mi chiamò e, senza dirmi nulla, mi diede prima un potente sculaccione e poi mi disse: ‘Adesso va’ da Paolo, chiedigli scusa e digli che ti comporterai bene’. ‘Ma ... è stato lui a cominciare...’. ‘Vai avanti ancora tanto?
- No, ma..
- Allora non hai ancora capìto che queste cose non devono succedere e che, se succedono, dovete sbrigarvela da soli senza farvi del male?’. Stetti zitto e da quel giorno cercai di risolvere i conflitti in modo diverso. - E non frequentavate attività sportive, corsi di strumento musicale, il catechismo...? - Il catechismo sì. Ogni giovedì pomeriggio, alle tre, iniziava un’ora di dottrina. Andavamo e tornavamo in gruppo, in bici. Imparavamo a memoria le orazioni e il catechismo di Pio Decimo.
- Uffa, anche lì a memoria! Sai che barba!
- Poi, fino a quando cominciava a calare il sole, avevamo il permesso di rimanere nel campo sportivo a giocare a calcio con gli altri bambini del paese. Guai, però, a tornare col buio! - Cosa succedeva, se no? - Il giovedì successivo avremmo dovuto tornare subito dopo il catechismo, senza poter giocare in campo sportivo. Che ricordi io, poi, non c’era nessuno che suonasse qualche strumento. Qualche ragazzo più grande frequentava la scuola di banda del maestro Facchin. Eravamo molto spesso più da soli, senza adulti vicini, come capita per voi adesso. Per questo ogni tanto succedeva anche qualche incidente abbastanza serio. Per esempio quel pomeriggio di primavera - mi pare fosse marzo – dietro la casa.
(Continua ....).



16  La ferita

- Cosa successe? - Eravamo i soliti tre o quattro e ci arrampicavamo sul salgàro, sul sàlice vecchio che segnava il confine tra la proprietà del mio papà e quella dello zio Silvio. La pianta, crescendo, aveva incorporato la rete che partiva dal muro della casa e finiva al limite del fossato. Appena finito il fusto, il salice aveva una specie di grande forcella dove noi, facendo scaletta con le mani e le spalle, salivamo.
- E’ come la scaletta che mi facevi prima di fare fagiolino?, chiese Alida.
- Pressappoco, sì, brava. - Come facevate? - Uno di noi, a turno, si appoggiava con la schiena al tronco, abbassava le braccia intrecciando davanti le dita delle due mani e tenendole strette.
Un altro bambino metteva il piede sulle mani così intrecciate, e aggrappandosi prima al collo del ragazzo che faceva da ‘palo’ e poi ad un ramo, saliva prima con l’uno, poi con l’altro piede sulla spalla e, infine, sulla forcella dell’albero.
Quindi spiccava un lungo salto verso terra. Il ragazzo che rimaneva da solo doveva arrangiarsi per salire sulla forcella del salice.
Quando fu il mio turno di fare il ‘palo’, dopo che tutti erano saltati dall’altra parte, mi arrampicai appoggiando le scarpe sulla corteccia ruvida.
Allungai le mani, appoggiai il bacino sulla parte laterale della forcella dove c’era un pezzo di filo spinato arrugginito, che nessuno di noi aveva visto, e mi resi subito conto di aver fatto uno strappo non solo alle braghe ed alla camicia, ma anche alla carne, nella parte alta della gamba.
Il sangue usciva abbondante.
Saltai giù e correndo assieme agli altri andammo sull’aia girando intorno alla casa.
Qui non c’era nessuno perché i grandi erano tutti nei campi, anche le mie sorelle.
Mentre mi tenevo stretta la parte alta della gamba con un fazzoletto, dissi a Paolo di prendere la chiave della porta d’entrata, una lunga chiave in ferro, sul davanzale della finestra, tra il vetro e l’inferriata esterna.
Entrammo nella camera del secchiaio, detti le istruzioni su dove prendere il cotone idrofilo, l’alcool rosa denaturato e la garza. Danilo mi disinfettò la lunga ferita che bruciava molto. Ma il sangue continuava a fuoriuscire.
‘E’ meglio che vada a chiamare la zia Olga’, disse Paolo.
Dopo circa un quarto d’ora, che sembrò interminabile, arrivarono sia la mamma che il papà. Mi chiesero dove e come era successo l’incidente e il papà disse:’Bisogna andare all’ospedale: la ferita è troppo estesa e ci può essere pericolo del tetano’. Prese la bicicletta, mi caricò sulla canna e mi accompagnò al pronto soccorso. Ero molto agitato, perché sapevo che mi avrebbero fatto la puntura. E, in verità, non solo la puntura; mi hanno anche cucito per benino i tessuti. Ancora adesso si vede una bella cicatrice. - Dove?
- Qui, nella parte esterna, alta, della gamba..

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