EL CARETìN
El caretìn era formato da un pianale piatto e tre piccoli cuscinetti a sfera. Le due ruote posteriori erano fisse; quella davanti girava a destra e a sinistra ed era governata da un manubrio, o volante, in legno. Se eravamo in due, uno si sedeva sul carrettino tenendo in mano il manubrio con le gambe dritte in avanti e l’altro spingeva da dietro correndo a più non posso. Se invece correvamo da soli ci mettevamo in ginocchio sul carrettino e con la gamba destra ci davamo la spinta per correre. A volte ci stendevamo sul carrettino a pancia in giù e ci davamo la spinta col piede destro o sinistro. Nelle curve era necessario prestare grande attenzione, perché era facile rovesciarsi. Di caretini ne avevamo tre. Il più veloce era stato costruito dallo zio Sereno. Facevamo gare appassionanti. Decidevamo insieme le modalità. Di solito facevamo tre giri, lungo la parte esterna del zélese. Il sorpasso era possibile, ma stando vicino all’altro carrettino, senza fare i furbi. Non era possibile infatti tagliare il percorso per renderlo più breve dell’altro, né toccare l’altro carrettino. Come erano amati da noi bambini, così i caretìni erano odiati dagli adulti, soprattutto da mio padre e da zio Severino, per il loro rumore assordante.
L'aia delle Barolde, su cui correvamo coi caretìni
Quando erano stufi di sentirci, dopo
cena in particolare, uscivano sul meàle[1] e si
fermavano a guardarci. Bastava questo perché noi ci fermassimo, esclamando
sottovoce: ‘Eco, gh’émo finìo de corare!’[2].
E ci rassegnavamo a cambiare gioco.
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