Zéste
e cavàgne
D’inverno mio padre, specialmente nei giorni di
pioggia, apriva il portone del magazzino e faceva zéste e cavàgne, ceste e cestoni; si sedeva vicino all’entrata, per
respirare meglio e, soprattutto, per vederci bene. Prendeva le strope tagliate qualche giorno prima dai stropari, le sceglieva in base al
diametro ed alla lunghezza e cominciava a fare il fondo, lasciando ad
intervalli regolari dei stropèi
abbastanza lunghi all’esterno, in modo da intrecciarvi poi la parte laterale. Era un lavoro che richiedeva
una grande abilità ed erano pochi quelli che lo sapevano fare bene. Io, pur
avendo guardato tante volte mio padre mentre lavorava le strope, non ho mai imparato. I cesti più belli, per esempio
quelli che sarebbero stati utilizzati in casa per il pane comune, o le grandi
ceste per contenere il pane biscotto, richiedevano una lavorazione
supplementare: mia madre preparava una grande ramina piena d’acqua in lissiara, e quando bolliva, mio padre
vi metteva dentro le strope. In tal
modo la scorza esterna si poteva togliere con facilità e i cesti, alla fine,
diventavano bianchi ed eleganti. La cesta del pan biscotto la conservavamo al
primo piano. Era una camera abbastanza calda, perché si trovava sopra la cucina
economica e il camino e ci passavano le canne fumarie sia dell’una che
dell’altro. Così il pane si manteneva
croccante e non diventava tegnizo[1].
Veniva poi appesa al soffitto perché, se ci fosse stata qualche maréciola[2], non
sarebbe riuscita a raggiungere in alcun modo la cesta.
Mio padre
Durante
la lavorazione mi piaceva sedermi, con la
careghina[1],
vicino a mio padre. Era l’occasione per parlare un po’ di tutto, per le
confidenze che rinsaldano i legami.
Ancora oggi, quando penso a lui, lo vedo là, vicino a me, curvo sulle ceste,
mente mi racconta con dolcezza di sé, del suo lavoro, della sua passione di
organista. Mi chiede della scuola, dei compagni, dei giochi; mi dice che è
contento dei miei risultati scolastici, mi domanda che cosa mi piace fare da
grande. Io gli chiedo informazioni sul lavoro dei campi, su quello che ha fatto
lui da giovane, sulla sua esperienza in guerra, ma, soprattutto, sul fucile che
tiene nella sua camera da letto, appeso ad un grosso chiodo. Un giorno: - Com’èla che ti, opà, che no te vè a cacia
come me zio Severino, te tièni un fusile in casa?[2] -
gli chiesi. Notai il suo imbarazzo nel rispondermi. - Ghe l’ho sempre vù, da quando son tornà casa da
la guèra. Te sé, qua a le Barolde sémo distanti da le case e se vén i ladri, co
‘na s-ciopetà te pol farli scapàre, col me Browning po, che l’è un fusile
semiautomatico a zinque colpi.[3] - Cossa vol dire ‘semiautomatico’?[4] - La difarénza tra
‘l fusile automatico e quélo semiautomatico l’è che col primo, se te tién tirà
‘l griléto, i colpi i parte uno dopo l’altro; col secondo, inveze, tirando ‘l
grileto, parte un colpo solo; par farghene partire n’antro bison macare da novo
‘l grileto.[5] Mi riusciva difficile immaginare mio padre col fucile in mano, mentre
sparava; mi risultava più facile pensare
Romano, il mio cugino tutto dedito alla meccanica, recitare poesie. Mi sembrava che tra lui e il fucile ci
fosse un’assoluta incompatibilità; automaticamente associavo mio padre alla tastiera dell’organo in chiesa o del
pianoforte a casa, anche se da tempo, ormai, non suonava più. - E gh’èto sparà qualche olta?[6]
- gli chiesi, sapendo di aver posto una domanda inopportuna. - Sì, qualche olta gò
sparà, de più subito dopo la guera, quando i vegnéa a robàre le galìne e la
roba de note. De solito, sparando in aria, i scapàva via[7]. - Ma ‘ndaséi fora de casa
par sparare?[8] - No, sarìa sta massa
pericoloso. Gh’èto fato caso a le finestre de sora, anca a quela de la to
càmara? Le gà on particolare.[9] - Sì, gò visto, gò
visto. Le gà un buso tondo e ‘n’asseta tacà a ‘n ciodo, che la se moe a destra
e a sinistra verso l’alto, assando vèrto ‘l buso. Noantri ghe zughémo sempre.[10] -
Eco, in te chi busi ghe metéino la cana del fusìle, vardàvino la direzion e
sparàvino.[11] - Gavìo
sparà dosso a qualchedun, qualche olta?[12] - No, staséino atenti a no sparare in
basso.[13] Su quegli episodi il papà
non ha mai voluto dirmi di più. Dopo alcuni anni, quando già frequentavo
l’università, la mamma mi raccontò che subito dopo la guerra, quando c’era
molta miseria e la gente aveva poco da mangiare, c’erano uomini e donne che
andavano, di notte, a portar via i raccolti in campagna. -
I te portava via tuto. I vegnéa anca da noantri, a le Barolde, co le armi. I
nostri omeni i caricava le cartucére, i toléa i fusili e i mitra...[14] -
Anca i mitra? Ma se podéa tegnérli in casa?[15] - Te gh’è da pensare che subito
dopo la guèra tuti i gavéa armi; i se le avéa portà a casa dal militare o i ghe
le avéa tolti ai tedeschi che scapava. Quei che vegnéa robare i gèra armà ‘nca
lori. I nostri omeni i partèa in siè o sète, i se scondéa, co i stivaloni,
drento i fossi con poca aqua e i faséa la guardia.[16] -
Me opà ‘l m’ha dito che no i naseéa mia fora de casa a sparare.[17] - Eh, par forza i dovéa narghe, se no i
voléa restare senza gnente. A casa gavéino el core in gola quando sentéino el
ta-ta ta de la mitraglia: bota e risposta da ‘na parte e da che l’altra.[18] - Com’èla, mama, che ‘l papà nol ne n’à mai parlà?[19] - Nol voléa che vualtri savéssi
de ste bruti fati. Desso mi ve li sto contando, ma me racomando de no dirghelo
a to opà. Lu nol vole che ghe ne parla. Lu nol vole che vualtri gavssi rancore
par gnessùni. Quele le gèra de le storie
che l’avéa fato star male. Savéino tuti ci i èra quei che vegnéa a robare, li conoscéino
uno a uno: qualchedun ‘l gavéa laorà a le Barolde e l’èra sta iutà da to opà.
‘Na olta i gèra pitochi, ma i pitochi no i naséa mia a robare. Lori, inveze, i
naséa in giro par le ostarie a dire che l’èra giusto portarghe via la roba e i
campi a quei che ghi avéa par dargheli a quei che no ghi avéa. I diséa che i
gavarìa fato come in Russia.[20]
‘Na note to zio Nando, che ‘l gavéa sposà to zia Severina, la sorela de
to opà, par un pelo nol gà lassà le péne. L’èra ‘ndà nei campi in Tafèle, a un
chilometro da casa nostra, col mitra. Gh’è scuminzià ‘na sparatoria e lu,
drento la Seriola, l’èra in via essare
acerchià dai ladri. Par fortuna to opà, to zio Severino, to zio Silvio e to zio
Sareno i ga capìo quélo che gèra in via capitàre e i à fati scapàre. To zio
Nando l’era restà senza cartucce.[21]
[1] Il seggiolino
[2]
[2] - Ma come mai tu,
papà, che non vai a caccia come lo zio Severino, tieni un fucile in casa?
[3]-
Ce l’ho
sempre avuto, da quando son tornato dalla guerra. Sai, qui alle Barolde siamo
lontani da altre case e, se vengono i ladri, una schioppettata li può far scappare,
specialmente col mio Browining, che è un fucile semiautomatico a cinque colpi.
[4]
- Cosa vol
dire semiautomatico?
[5]
- C’è questa
differenza tra il fucile automatico e il semiautomatico. Col primo, tenendo
premuto il grilletto, i colpi partono uno dopo l’altro, come se fosse un mitra;
col secondo, invece, premendo il grilletto, parte un solo colpo; per farne
partire un altro occorre premere di nuovo il grilletto.
[6] - E ti è capitato
di sparare qualche volta?
[7] - Sì, qualche volta ho sparato, soprattutto subito
dopo la fine della guerra, quando venivano a rubare le galline e i
raccolti di notte. Di solito, sparando
in aria, scappavano via.
[8] - Ma uscivate di casa per sparare?
[9] - No, sarebbe stato troppo pericoloso. Hai osservato
le finestre del piano superiore, compresa quella della tua camera? Hanno una
particolarità.
[10] - Sì, ho visto, ho visto. Hanno uno spioncino, un foro
rotondo e un’assicella che, attaccata con un chiodo, si sposta a destra o a
sinistra verso l’alto, lasciando aperto il buco. Noi ci giochiamo spesso.
[11] - Ecco, in
quegli spioncini inserivamo la canna del
fucile, guardavamo la direzione e sparavamo.
[12] - Avete colpito
qualcuno, qualche volta?
[13] - No, stavamo bene attenti a non sparare in basso.
[14] - Ti portavano via tutto. Venivano anche da noi, alle
Barolde, armati. I nostri uomini caricavano le cartuccere, prendevano i fucili
e i mitra ....
[15]- Anche i mitra?
Ma non era proibito tenerli in casa?
[16] - Sì, ma devi pensare che subito dopo la guerra tutti
avevano armi, che si erano portati a casa dal servizio militare o che avevano
tolto ai tedeschi in fuga. Quelli che venivano a rubare erano armati anche
loro. I nostri uomini partivano in sei o sette, si appostavano, con gli
stivaloni, dentro i fossati con poca
acqua e facevano la guardia.
[17] - Il papà mi ha detto che non uscivano a sparare.
[18] - Eh, erano costretti, se non volevano rimanere senza
alcun raccolto. A casa stavamo col cuore in gola quando sentivamo che l’aria
era lacerata dal crepitio dei mitragliatori: botta e risposta da una parte e
dall’altra.
[19] - Ma come mai, mamma, il papà non ne ha mai parlato?
[20]
Non voleva
che voi veniste a conoscenza di questi brutti episodii. Adesso io te li sto
raccontando, perché sei grande e puoi capire, ma mi raccomando di non farne
assolutamente cenno al papà. Lui non vuole che ne parli. Non ha mai voluto che
voi cresceste provando odio o rancore verso nessuno. Era un’esperienza che
l’aveva fatto soffrire. Sapevamo tutti chi erano quelli che venivano a rubare,
li conoscevamo ad uno ad uno: alcuni di loro avevano lavorato alle Barolde ed
erano stati aiutati dal papà in situazioni molto difficili. Erano poveri, ma la
stragrande maggioranza dei poveri non andava a portar via la roba. Loro invece
andavano in giro dicendo che era giusto togliere la roba e la proprietà a chi
l’aveva per distribuirla a coloro che non ce l’avevano. Dicevano che avrebbero
fatto come in Russia.
[21]
Una notte
tuo zio Nando, che aveva sposato Severina, la sorella di tuo papà, per poco non
ci lasciò le penne. Era partito per i campi in Tafèle, a un chilometro circa
dalla nostra casa, con il mitra. Iniziò una sparatoria e lui, dentro la Seriola, stava per essere circondato
da quelli che erano venuti a rubare. Per fortuna tuo padre, zio Severino, zio
Silvio e zio Sereno si resero conto di quanto stava accadendo e riuscirono a
togliere l’assedio. Zio Nando era rimasto completamente a secco di munizioni.
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