Invece ... le tre ore di spettacolo sono state una tortura dall'inizio alla fine. Una regia, quella di Michieletto, che ha stavolto in una farsa il testo gogoliano, senza far acquisire un nuovo senso al testo.
Non sono a priori contro le attualizzazioni dei testi teatrali classici, ma l'operazione del regista è diventata un supplizio. Sono stato tentato a più riprese di fare quello che altri spettatori hanno fatto alla fine del primo tempo, cioè di alzarmi ed andarmene, ma son voluto rimanere per poter esprimere un giudizio più preciso sullo spettacolo.
Tornato amareggiato a casa, ho cercato su internet alcune recensioni ed ho trovato quella di Angelo Callipo che condivido dalla prima parola all'ultima e che riporto qui di seguito:
La recensione di Angelo Callipo
Quando il nuovo che avanza è armai dietro le spalle
In una sudicia e sperduta cittadina russa una cricca di loschi e patetici figuri scambiano un giovane impiegato del ministero per l’ispettore generale inviato dal governo centrale. Il risultato sarà l’irriverente e atroce satira con cui Gogol tratteggia l’intoccabile burocrazia zarista incarnata da una piramide di potere che dal Podestà arriva fino all’ufficiale postale e che ha come contraltare lo spiantato Chlestakov, che, da falso ispettore, si lascia corrompere a sua volta dai funzionari corrotti.
Tutto qui. Un equivoco, niente di più. Capace però di generare quel capolavoro che la critica letteraria russa, dopo una prima tiepida accoglienza, riterrà perfino superiore a Molière. La furberia di Osip, la scrocconeria di Chlestakov, i ridicoli sotterfugi di Anton Antonovic, podestà di ultima serie e truffatore dilettante, la fatua vanità di Andreevna sua moglie, moltiplicano l’equivoco iniziale indagando quella particolare tendenza della coscienza umana che è la disponibilità ad ogni forma di compromesso.
Un vizio, non una condizione. Un vizio su cui anche un uomo mite e religioso come Gogol poteva permettersi di sorridere.
Ecco che invece Damiano Michieletto, nella messinscena di cui firma l’adattamento drammaturgico (quale?) e la regia, per una coproduzione del Teatro Stabile del Veneto e Teatro Stabile dell’Umbria, nell’ansia di dare sostanza al suo pedigree di enfant prodige della scena italiana e compiaciuto per aver intuito il grottesco che si cela nella vicenda, costruisce uno spettacolo dove il grottesco più che cogliere l’assurdità dei personaggi gogoliani resta appiccicato agli attori che li interpretano, all’impianto scenico dove tutto è esattamente così come si vede in una miscela di finto realismo piuttosto sconcertante, all’idea stessa, infine, che sottende l’intera operazione, l’idea cioè di una dissacrazione che però non ha il coraggio di essere tale fino in fondo.
Ad ingresso del pubblico, il sipario è aperto (perché?) sull’interno di un bar sgangherato, la tv manda giochi a premi di matrice putiniana, sul fondo una slot machine lampeggia, e continuerà a farlo per tutto lo spettacolo senza che nessuno o quasi se ne occupi, un bel pezzo di modernariato insomma, alcuni ometti escono e entrano dal locale, a volte si siedono, a volte bevono, a volte si girano verso la televisione, in un tale dispendio di finzione che lo spettatore, se non fosse distratto dal chiacchiericcio che le luci di sala ancora accese favoriscono, probabilmente sorriderebbe benevolo.
In ogni caso è questo il microcosmo in cui saremo costretti a vedere la storia, un microcosmo in cui irrompe il podestà, il vertice della cupola, una sorta di boss carnacialesco con i tratti di Claudio Bisio, gli occhiali da sole perennemente inforcati, è vero, gli occhiali da sole fanno un po’ Gomorra ma davvero non bastano, di tanto in tanto esibisce una pistola, ma anche questo davvero non basta, che infine maltratta la barista dalle lenti spesse, sua figlia come si capirà poi, vagamente rassomigliante alla triste Mariangela figlia di cotanto Fantozzi, ma fantozziano è anche il sovrintendente alle opere pie Filipovic, che a tratti ricorda il vecchio milanese e rincoglionito di Giacomo del trio Aldo, Giovanni e Giacomo, e così via, passando per Chlestakov che assomiglia a un Jim Carrey degli anni ’60, finendo ad una Andreevna imbarazzante nell’interpretare un’oca giuliva.
Tutti gridano, tutti si agitano, consumano chilometri nella sala del bar, intanto il commissario di polizia, travestito da gringos sudamericano, barcolla continuamente ubriaco esibendosi in gag da sbevazzo degne di una sit com, mentre i due Petr Ivanovic, o Gianni e Pinotto o i fratelli De Rege a secondo dei casi, cadono, sbattono e si accavallano come in una farsa da oratorio. Il testo va avanti tra lungaggini insopportabili e balletti che ridurre o eliminare non sarebbe stato peccaminoso, trovando poi il suo definitivo compimento nella scena clou, quella che avrebbe dovuto fare il botto insomma, in cui tutti gli zotici paesani, dopo che il podestà ha scartocciato da bustine e appeso ai neon batterie di led luminosi, avanzi dell’ultimo natale probabilmente, si riuniscono in un’enorme piscina di plastica per una festa che vorrebbe essere lurida, kitsch, da mafia russa o qualcosa di simile, ricordate le famose foto di Maradona nella vasca da bagno del boss Giuliano?, e che invece ancora una volta si rivela un piccolo topolino partorito dall’elefante. Luce stroboscopica, musica ad alto volume, il podestà che un certo punto si ricorda di tirare una pista di coca, proprio lì sul bordo della piscina di plastica, e tutto questo armamentario di cose già viste ma che non si vorrebbero più vedere si porta via altri venti minuti, venti minuti di noia punitiva. Ma ecco l’ufficiale postale Kuzmic portare la notizia che Chlestakov ha approfittato dell’equivoco per scroccare soldi a destra e a manca, mentre il telefono squilla, una luce magica lo investe, quasi si trattasse di un telefono collegato direttamente con il Paradiso e qualcuno dall’altro capo del filo avverte che il vero ispettore generale è ormai arrivato in paese.
E’ finita. No. Nel foyer del teatro un cartello avverte che la durata è di due ore e cinquanta e mancano ancora una manciata di minuti. Dunque, si va avanti.
Messa giù la cornetta, lo sconcerto prende tutti, anche gli spettatori che assistono alla coda finale di un finale che non accenna a finire in cui la piccola Antonovna infila in bocca a tutti una banconota, è perché sono stati avidi di danaro?, e come in un contrappasso dantesco afferra un mattarello su cui è infilato un enorme domopack e con quello avvolge l’intero gruppo.
Un’operazione, quest’ultima, che dura altri interminabili cinque minuti e lascia i poveri attori senza ossigeno e i poveri spettatori senza fiato. Ma poi finalmente il fiato si può tirarlo: stavolta è davvero finita.
Visto il 31/01/2014 a Venezia (VE) Teatro: Carlo Goldoni"
In una sudicia e sperduta cittadina russa una cricca di loschi e patetici figuri scambiano un giovane impiegato del ministero per l’ispettore generale inviato dal governo centrale. Il risultato sarà l’irriverente e atroce satira con cui Gogol tratteggia l’intoccabile burocrazia zarista incarnata da una piramide di potere che dal Podestà arriva fino all’ufficiale postale e che ha come contraltare lo spiantato Chlestakov, che, da falso ispettore, si lascia corrompere a sua volta dai funzionari corrotti.
Tutto qui. Un equivoco, niente di più. Capace però di generare quel capolavoro che la critica letteraria russa, dopo una prima tiepida accoglienza, riterrà perfino superiore a Molière. La furberia di Osip, la scrocconeria di Chlestakov, i ridicoli sotterfugi di Anton Antonovic, podestà di ultima serie e truffatore dilettante, la fatua vanità di Andreevna sua moglie, moltiplicano l’equivoco iniziale indagando quella particolare tendenza della coscienza umana che è la disponibilità ad ogni forma di compromesso.
Un vizio, non una condizione. Un vizio su cui anche un uomo mite e religioso come Gogol poteva permettersi di sorridere.
Ecco che invece Damiano Michieletto, nella messinscena di cui firma l’adattamento drammaturgico (quale?) e la regia, per una coproduzione del Teatro Stabile del Veneto e Teatro Stabile dell’Umbria, nell’ansia di dare sostanza al suo pedigree di enfant prodige della scena italiana e compiaciuto per aver intuito il grottesco che si cela nella vicenda, costruisce uno spettacolo dove il grottesco più che cogliere l’assurdità dei personaggi gogoliani resta appiccicato agli attori che li interpretano, all’impianto scenico dove tutto è esattamente così come si vede in una miscela di finto realismo piuttosto sconcertante, all’idea stessa, infine, che sottende l’intera operazione, l’idea cioè di una dissacrazione che però non ha il coraggio di essere tale fino in fondo.
Ad ingresso del pubblico, il sipario è aperto (perché?) sull’interno di un bar sgangherato, la tv manda giochi a premi di matrice putiniana, sul fondo una slot machine lampeggia, e continuerà a farlo per tutto lo spettacolo senza che nessuno o quasi se ne occupi, un bel pezzo di modernariato insomma, alcuni ometti escono e entrano dal locale, a volte si siedono, a volte bevono, a volte si girano verso la televisione, in un tale dispendio di finzione che lo spettatore, se non fosse distratto dal chiacchiericcio che le luci di sala ancora accese favoriscono, probabilmente sorriderebbe benevolo.
In ogni caso è questo il microcosmo in cui saremo costretti a vedere la storia, un microcosmo in cui irrompe il podestà, il vertice della cupola, una sorta di boss carnacialesco con i tratti di Claudio Bisio, gli occhiali da sole perennemente inforcati, è vero, gli occhiali da sole fanno un po’ Gomorra ma davvero non bastano, di tanto in tanto esibisce una pistola, ma anche questo davvero non basta, che infine maltratta la barista dalle lenti spesse, sua figlia come si capirà poi, vagamente rassomigliante alla triste Mariangela figlia di cotanto Fantozzi, ma fantozziano è anche il sovrintendente alle opere pie Filipovic, che a tratti ricorda il vecchio milanese e rincoglionito di Giacomo del trio Aldo, Giovanni e Giacomo, e così via, passando per Chlestakov che assomiglia a un Jim Carrey degli anni ’60, finendo ad una Andreevna imbarazzante nell’interpretare un’oca giuliva.
Tutti gridano, tutti si agitano, consumano chilometri nella sala del bar, intanto il commissario di polizia, travestito da gringos sudamericano, barcolla continuamente ubriaco esibendosi in gag da sbevazzo degne di una sit com, mentre i due Petr Ivanovic, o Gianni e Pinotto o i fratelli De Rege a secondo dei casi, cadono, sbattono e si accavallano come in una farsa da oratorio. Il testo va avanti tra lungaggini insopportabili e balletti che ridurre o eliminare non sarebbe stato peccaminoso, trovando poi il suo definitivo compimento nella scena clou, quella che avrebbe dovuto fare il botto insomma, in cui tutti gli zotici paesani, dopo che il podestà ha scartocciato da bustine e appeso ai neon batterie di led luminosi, avanzi dell’ultimo natale probabilmente, si riuniscono in un’enorme piscina di plastica per una festa che vorrebbe essere lurida, kitsch, da mafia russa o qualcosa di simile, ricordate le famose foto di Maradona nella vasca da bagno del boss Giuliano?, e che invece ancora una volta si rivela un piccolo topolino partorito dall’elefante. Luce stroboscopica, musica ad alto volume, il podestà che un certo punto si ricorda di tirare una pista di coca, proprio lì sul bordo della piscina di plastica, e tutto questo armamentario di cose già viste ma che non si vorrebbero più vedere si porta via altri venti minuti, venti minuti di noia punitiva. Ma ecco l’ufficiale postale Kuzmic portare la notizia che Chlestakov ha approfittato dell’equivoco per scroccare soldi a destra e a manca, mentre il telefono squilla, una luce magica lo investe, quasi si trattasse di un telefono collegato direttamente con il Paradiso e qualcuno dall’altro capo del filo avverte che il vero ispettore generale è ormai arrivato in paese.
E’ finita. No. Nel foyer del teatro un cartello avverte che la durata è di due ore e cinquanta e mancano ancora una manciata di minuti. Dunque, si va avanti.
Messa giù la cornetta, lo sconcerto prende tutti, anche gli spettatori che assistono alla coda finale di un finale che non accenna a finire in cui la piccola Antonovna infila in bocca a tutti una banconota, è perché sono stati avidi di danaro?, e come in un contrappasso dantesco afferra un mattarello su cui è infilato un enorme domopack e con quello avvolge l’intero gruppo.
Un’operazione, quest’ultima, che dura altri interminabili cinque minuti e lascia i poveri attori senza ossigeno e i poveri spettatori senza fiato. Ma poi finalmente il fiato si può tirarlo: stavolta è davvero finita.
Visto il 31/01/2014 a Venezia (VE) Teatro: Carlo Goldoni"