IL NONNO RACCONTA (PARTE SECONDA)
LA POLENTA, LA PANARA, LA STECA, EL FILO - Il nonno racconta alle nipotine...
Ogni sera la mamma, appena tramontato il sole, d’autunno e d’inverno, faceva la polenta nella ramìna, un grosso recipiente in rame.
A volte la appendeva al gancio della catena, a volte la metteva sul treppiede in ferro su la mare, a volte, soprattutto in epoca più recente, la appoggiava sulla stufa, dopo aver tolto tre o quattro anelli.
Menava, cioè girava il mestolo per circa tre quarti d’ora e stava ben attenta a no fare tuti gnochi, a non fare grumi.
Quando bolliva, prendeva la panàra, la tafferìa e la appoggiava alla parte esterna del focolare. Se mi avvicinavo troppo, mi diceva, alzando il tono della voce: ‘Tirete via, che no te pela’, ‘spostati, se non vuoi che ti levi la pelle’.
- Ma perché ti diceva così? Non era molto gentile.
- Dovete tener presente che la polenta poteva procurare delle scottature peggiori dell’acqua bollente, per cui era veramente pericolosa. Poi roersava, rovesciava, la polenta sulla panara; quindi prendeva la stecca , bagnava un po’ la polenta e dava dei colpetti di assestamento.
- Perché, nonno, bagnava la polenta?
- Perché così la polenta non si attaccava e nello stesso tempo la polenta diventava più lucida e quindi più bella. Poi era il momento in cui noi ragazzi ci lanciavamo verso la ramina.
- E perché?
- Perché volevamo staccare e mangiare la crosta, una ghiottoneria. Di solito, senza litigare facevamo a turno. A volte era difficile staccare la crosta; altre volte, invece, si staccavano dei pezzi molto grandi. E allora eravamo molto contenti. Ne davamo anche alla mamma e al papà, che ci guardavano sorridendo.
Quindi la panara veniva messa in mezzo alla tavola, si aspettava che si raffreddasse appena un po’, e la mamma cominciava a tagliarla con un filo di refe e a distribuire le fette. Mentre mangiavamo e pociàvino, la mamma tagliava i ori, gli orli della polenta e ci diceva: ‘Né pian che no ve tegno gnanca drìo’, ‘andate piano, perché non riesco a tenervi dietro’.
Se avanzava della polenta, la mamma la tagliava a fette e l’indomani sera le fette erano pronte per essere abbrustolite sulla gradèla, sulla graticola.
Uno dei giochi che ci piaceva fare col fuoco era quello di fare la rua, la ruota, accendendo la cima di un legnetto e poi facendolo girare nell’aria in modo da ottenere un cerchio. ‘Sta’ fermo col fogo’, lascia stare il fuoco, interveniva subito il papà ‘che no se scherza col fogo, che non si deve scherzare col fuoco’.
'E ‘no sta a ‘nadar fora col stizo, parché ciàpa fogo i scataroni sul zélese’, ‘non uscire di casa col legnetto acceso, perché possono prendere fuoco i pezzi delle piante di granoturco che coprono l’aia’.
LA POLENTA, LA PANARA, LA STECA, EL FILO - Il nonno racconta alle nipotine...
Ogni sera la mamma, appena tramontato il sole, d’autunno e d’inverno, faceva la polenta nella ramìna, un grosso recipiente in rame.
A volte la appendeva al gancio della catena, a volte la metteva sul treppiede in ferro su la mare, a volte, soprattutto in epoca più recente, la appoggiava sulla stufa, dopo aver tolto tre o quattro anelli.
Menava, cioè girava il mestolo per circa tre quarti d’ora e stava ben attenta a no fare tuti gnochi, a non fare grumi.
Quando bolliva, prendeva la panàra, la tafferìa e la appoggiava alla parte esterna del focolare. Se mi avvicinavo troppo, mi diceva, alzando il tono della voce: ‘Tirete via, che no te pela’, ‘spostati, se non vuoi che ti levi la pelle’.
- Ma perché ti diceva così? Non era molto gentile.
- Dovete tener presente che la polenta poteva procurare delle scottature peggiori dell’acqua bollente, per cui era veramente pericolosa. Poi roersava, rovesciava, la polenta sulla panara; quindi prendeva la stecca , bagnava un po’ la polenta e dava dei colpetti di assestamento.
- Perché, nonno, bagnava la polenta?
- Perché così la polenta non si attaccava e nello stesso tempo la polenta diventava più lucida e quindi più bella. Poi era il momento in cui noi ragazzi ci lanciavamo verso la ramina.
- E perché?
- Perché volevamo staccare e mangiare la crosta, una ghiottoneria. Di solito, senza litigare facevamo a turno. A volte era difficile staccare la crosta; altre volte, invece, si staccavano dei pezzi molto grandi. E allora eravamo molto contenti. Ne davamo anche alla mamma e al papà, che ci guardavano sorridendo.
Quindi la panara veniva messa in mezzo alla tavola, si aspettava che si raffreddasse appena un po’, e la mamma cominciava a tagliarla con un filo di refe e a distribuire le fette. Mentre mangiavamo e pociàvino, la mamma tagliava i ori, gli orli della polenta e ci diceva: ‘Né pian che no ve tegno gnanca drìo’, ‘andate piano, perché non riesco a tenervi dietro’.
Se avanzava della polenta, la mamma la tagliava a fette e l’indomani sera le fette erano pronte per essere abbrustolite sulla gradèla, sulla graticola.
Uno dei giochi che ci piaceva fare col fuoco era quello di fare la rua, la ruota, accendendo la cima di un legnetto e poi facendolo girare nell’aria in modo da ottenere un cerchio. ‘Sta’ fermo col fogo’, lascia stare il fuoco, interveniva subito il papà ‘che no se scherza col fogo, che non si deve scherzare col fuoco’.
'E ‘no sta a ‘nadar fora col stizo, parché ciàpa fogo i scataroni sul zélese’, ‘non uscire di casa col legnetto acceso, perché possono prendere fuoco i pezzi delle piante di granoturco che coprono l’aia’.
EL MASC-IO , L'UCCISIONE DEL MAIALE ALLE BAROLDE - Il nonno racconta alle nipotine...
Arrivava il momento di ammazzare il maiale, di solito tra Santa Lucia e Natale. C’era, in corte, un’attesa spasmodica.
- Che significa nonno?
- Che tutti, Alida, aspettavamo con ansia l’avvenimento. Noi bambini avevamo un grande desiderio di vedere e partecipare e nello stesso tempo una certa paura per quel rito che sapevamo essere molto crudele. Sapevamo bene, però, che con il maiale avremmo mangiato un anno intero e che durante la lavorazione delle carni del maiale ci sentivamo tutti una sola famiglia.
Il maiale da macellare veniva lasciato a digiuno sin dalla sera prima.
La mattina di buonora veniva messo a bollire un pentolone pieno d’acqua.
Quindi arrivava ‘l mazìn, cioè la persona che avrebbe ucciso il maiale, in bicicletta, col so’ cariolon, la pelaora, el zesto de le arte, la lunga carriola, e gli attrezzi che servivano per ammazzare e squartare il maiale. L’animale, al quale era stata legata al grugno una grossa corda, veniva tirato fino alla pelaora, la vasca di legno e spinto da 5 o sei persone.
Gli urli strazianti del mas-cio si sentivano a grande distanza, forse fino a un chilometro.
Uno teneva un secchio sotto il collo dell’animale; ‘l mazìn colpiva la carotide del maiale con uno stiletto e lasciava sgorgare tutto il sangue nel secchio. Questa operazione era molto importante perché impediva che il sangue finisse nelle carni, facendole diventare nere.
- Era crudelissimo, però, questo modo di ucciderlo!
- Sì, è vero, Margherita, e i nostri genitori se ne rendevano conto, tanto che cercavano qualsiasi scusa per far allontanare noi bambini dal luogo dell’uccisione.
Un anno, per esempio, hanno mandato me e Paolo a comprare del sale da Pastorìn e quando siamo tornati il maiale era già stato scuoiato.
L’anno successivo, poco prima dell’esecuzione, ci hanno mandati a casa della zia Luigia a prendere i pararece par i mas-ci, i para orecchi per il maiale. Solo quando siamo arrivati dalla zia, dalla sua risata aperta, abbiamo capito di essere stati beffati.
Allora ci siamo ripromessi che negli anni successivi non ci avrebbero più imbrogliato ed avremmo assistito alle varie fasi, perché, pur facendoci star male, l’uccisione del maiale era come una specie di cerimonia di iniziazione.
- Non parlare difficile, nonno.
- Significa, Alida, che assistendo all’uccisione, in qualche modo diventavamo grandi anche noi.
Proprio l’anno dopo, però, quando ‘l mazìn sferrò il colpo nella gola, l’animale, che pesava, dicevano, oltre due quintali, non essendo stato colpito nel punto esatto, diede un fortissimo strattone e riuscì a fuggire ancora col coltello piantato.
Tutti gli uomini, urlando quasi più dell’animale, si misero alla sua rincorsa, e noi bambini dietro.
Il maiale imboccò una capezzagna e si mise a correre in modo tale che gli uomini a stento riuscivano ad avvicinarsi.
Poi, mano a mano che le sue forze diminuivano, gli uomini riuscirono a mettere il laccio al grugno, a fare un lazo alle gambe posteriori, a rovesciarlo a gambe all’in su e a trascinarlo in corte, per finire la macabra cerimonia.
- Avevano ragione, allora, a mandarvi lontano dalla corte.
- Probabilmente sì, ma noi vivevamo questo allontanamento come una sanzione negativa, come se significasse che ci consideravano ancora soltanto dei mocciosi.
Il sangue veniva subito cotto dalla mamma nella ramina sul fuoco. Quindi lo si mangiava in compagnia. Non tutti ne volevano. Soprattutto le donne si giravano dall’altra parte:
‘Me fa scarezze, a pensar che l’è sangoe’ , ‘rabbrividisco, al pensare che si tratta di sangue’, dicevano.
- Beh,... come facevate a mangiarlo? Facevate quasi come i vampiri!
- Non esagerare, Margherita! Del maiale non andava buttato via niente
L'animale pian piano veniva sommerso di acqua bollente e gli venivano asportate minuziosamente le setole.
La pulitura dei peli si effettuava adagiando il maiale morto sopra una cassa di legno, la mésa, dove veniva accuratamente pulito con coltelli affilati ed appositi raschietti.
Quindi si appendeva il maiale dagli arti posteriori, innalzandolo mediante un sistema di funi e due legni d’acacia.
La gente che era lì misurava il lardo co la man, con le dita unite.
‘Tre déi, quatro déi de grasso’, ‘tre dita, quattro dita di grasso’, commentavano. ‘Vol dire che i g’ha dà da magnare bèn, significa che lo hanno nutrito bene!’
Il maiale appeso era prima liberato delle interiora che, una volta lavate, venivano poi utilizzate per fare i vari insaccati; poi, con dei coltelli molto affilati e con una manara (mannaia) o un stegagno (pennato), gli uomini praticavano un taglio perpendicolare lungo la schiena dell'animale per ottenere due mezzene.
La macellazione del maiale era un momento di festa per tutti: dopo il sangue, venivano cotte le 'animelle' (cervello e midollo spinale) e le 'rifilature', cioe' i pezzetti di carne che si ottenevano lungo il taglio di sezionatura della bestia.
Del maiale, come vi ho detto, non si buttava via nulla: le setole erano utilizzate per fabbricare pennelli, gli ossi venivano bolliti per fare brodo e sugo e la cotica entrava nella preparazione dei cotechini.
Per il resto, le bistecche e le bresòle, le braciole venivano cotte alla brace, i zampìni, gli zampetti in umido. Il lardo era il condimento adoperato per tutto l'anno; la pelle serviva per ungere le seghe.
Col sangue si facevano le morette, i salami neri e con i polmoni una specie di salsicce. Noi bambini aiutavamo i grandi quando facevano i salami e cotechini: giravamo a turno la manovella dell’ impastatrice. Le donne, invece, erano indaffaratissime a bollire e pulire i budelli che sarebbero serviti per far su, per insaccare i salami.
La bravura del saladàro, colui che faceva i salami, si vedeva quando 'el salava' la pasta, con un perfetto dosaggio di sale, pepe ed aglio pestato e quando faceva i salami non dovevano essere né duri, né moli, ma duri che va bèn, della giusta grossezza, senza rompere el buèlo, il budello esterno.
ZESTE E CAVAGNE (da: IL NONNO RACCONTA)
D’inverno mio padre, specialmente nei giorni di pioggia, apriva il portone del magazzino e faceva 'zéste e cavàgne', ceste e cestoni; si sedeva vicino all’entrata, per respirare meglio e, soprattutto, per vederci bene. Prendeva le 'strope' tagliate qualche giorno prima dai 'stropari', le sceglieva in base al diametro ed alla lunghezza e cominciava a fare il fondo, lasciando ad intervalli regolari dei 'stropèi' abbastanza lunghi all’esterno, in modo da intrecciarvi poi la parte laterale.
Era un lavoro che richiedeva una grande abilità ed erano pochi quelli che lo sapevano fare bene.
Io, pur avendo guardato tante volte mio padre mentre lavorava le 'strope', non ho mai imparato.
I cesti più belli, per esempio quelli che sarebbero stati utilizzati in casa per il pane comune, o le grandi ceste per contenere il pane biscotto, richiedevano una lavorazione supplementare: mia madre preparava una grande ramina piena d’acqua in 'lissiara', e quando bolliva, mio padre vi metteva dentro le 'strope'. In tal modo la scorza esterna si poteva togliere con facilità e i cesti, alla fine, diventavano bianchi ed eleganti.
Bianca era la cesta del pan biscotto, che conservavamo al primo piano, in una camera abbastanza calda, perché si trovava sopra la cucina economica e il camino, e ci passavano le canne fumarie sia dell’una che dell’altro. Così il pane si manteneva croccante e non diventava 'tegnizo' .
Veniva poi appesa al soffitto con un 'rampin' perché, se qualche 'maréciola' avesse tentato di rosicchiare il pane, non sarebbe riuscita a raggiungere in alcun modo la cesta.
Durante la lavorazione mi piaceva sedermi, con la 'careghina' , vicino a mio padre.
Era l’occasione per parlare un po’ di tutto, delle confidenze che rinsaldano i legami.
Ancora oggi, quando penso a lui, lo vedo là, vicino a me, curvo sulle ceste, mente mi racconta con dolcezza di sé, del suo lavoro, della sua passione di organista. Mi chiede della scuola, dei compagni, dei giochi; mi dice che è contento dei miei risultati scolastici, mi domanda che cosa mi piace fare da grande.
Io gli chiedo informazioni sul lavoro dei campi, su quello che ha fatto lui da giovane, sulla sua esperienza in guerra, ma, soprattutto, sul fucile che tiene nella sua camera da letto, appeso ad un grosso chiod
La zoppina (da IL NONNO RACCONTA)
Un anno tutto l’ultimo tratto di stradello a lato della Pezza Tonda fu ricoperto di una polvere bianca.
Era calce, e copriva, oltre allo stradello, tutta la corte. Sul portone era stato affisso un grande cartello di latta su cui c’era scritto:‘AFTA EPIZOOTICA’ .
Era un nome che non avevamo mai sentito. Mio padre e i miei zii la chiamavano più semplicemente ZOPPINA; non sapevamo in che cosa consistesse, ma sapevamo che con quella malattia le bestie morivano.
Sarebbe stata la peggior disgrazia che poteva capitare.
La calce serviva a disinfettare scarpe, piedi, ruote, tutto ciò che poteva venire a contatto col terreno per evitare che l’epidemia si trasmettesse da altre stalle alla nostra. In corte c’era un clima molto pesante.
Si raccontava che ai Giuntani erano già morte tre vacche: avevano avuto un febbrone e un drastico calo del latte nelle femmine in lattazione, ed erano comparse lesioni vescicolose in bocca.
Anche i Brombin, dicevano, ne avevano una con la febbre alta. I nostri papà prima fecero venire il prete, don Franco, a invocare la protezione di San Bovo e poi convocarono tutti noi ragazzi.
Ci spiegarono la pericolosità della malattia e ci raccomandarono di non andare nelle corti degli altri almeno finché non fosse passata del tutto l’epidemia.
L’allarme durò circa tre mesi.
Nel disegno: Il virus dell'Afta epizootica
La giara (da: IL NONNO RACCONTA)
Quando, dopo il disgelo, la terra del stradon de le Barolde cominciava ad indurirsi, i nostri genitori e gli zii passavano con l’erpice tirato dai buoi o, in periodo più recente, dal trattore, per sgualivàre la tera . All’andata sistemavano la parte destra facendo il colmo al centro e al ritorno la sinistra, sempre con la pendenza laterale, in modo che l’acqua piovana potesse scendere giù nel fossato facendo il minor numero possibile di buche sulla strada.
Quindi arrivava Marini col camion pieno. Al ponte delle due pioppe cominciava a scaricare la giàra grossa .
Tutti andavamo là, a piedi, ad ammirare lo spettacolo: nessuno aveva mai visto un camion nuovissimo rosso fiammante come quello e per di più ribaltabile: l’autista premeva un pulsante e, magìa, il cassone del rimorchio si alzava e dalla sponda posteriore pioveva giù una gran quantità di ghiaia.
Una decina di uomini con carriole e badili la stendeva e il camion, dietro, aspettava che tutta la ghiaia fosse stata utilizzata per poi scaricarne ancora.
Noi ragazzi avremmo voluto aiutare i grandi con le nostre palette, ma guai ad avvicinarsi. Loro sembravano gelosi del lavoro e non volevano bambini fra i piedi.
Quando il camion aveva scaricato tutta la ghiaia si girava e se ne andava e gli uomini, dopo averla stesa tutta con i badili, passavano con un pesantissimo rullo in pietra, trainato dai buoi o dal trattore.
Erano velocissimi nello stendere, ma per finire il lavoro servivano 3 o 4 ore, qualche volta anche di più: el stradon era lungo più di un chilometro.
Poi aspettavano che Marini tornasse con la ghiaia fine. E l’operazione di stendere la ghiaia veniva ripetuta con molta più celerità. Veniva scelta stavolta la ghiaia appuntita e non molto piccola perché al passaggio dei vari mezzi di trasporto (carri, rimorchi, trattori) si sarebbe conficcata più facilmente nel terreno e non sarebbe scivolata nel fosso come la ghiaia tonda.
Così era più facile però forare le gomme delle bici.
Per questo le mamme, il mattino, ci facevano partire almeno mezz’ora prima dell’inizio delle lezioni, perché avessimo il tempo, nel caso in cui avessimo bucato o in cui la catena fosse uscita dalla ruota dentata, di arrivare ugualmente puntuali in classe.
QUANDO I SCALVAVA ( Il nonno racconta...)
El stradon delle Barolde era bellissimo: si distendeva sulla campagna come un serpente, sopra elevato rispetto ai campi di tre o quattro metri, e diviso da essi da due fossati pieni, durante l’estate, dell’acqua proveniente dall’Adige; due verdi filari di salici ai lati arrivavano fin quasi dentro la corte.
D’estate la loro ombra era provvidenziale; i rami a ventaglio lasciavano filtrare la luce ma non il calore asfissiante del sole; d’inverno i filari coperti di brina destavano meraviglia.
Noi bambini ammiravamo lo straordinario spettacolo.
Quando i grandi erano o in casa o al lavoro nella càmara marangon, prendevamo di nascosto sull’aia una pertica ciascuno e andavamo sullo stradon a sbattere la brina. Se eravamo in due ci mettevamo uno sul filare di destra e l’altro su quello di sinistra. Se eravamo in quattro, due stavano davanti di una trentina di metri e due dietro, uno da un lato e l’altro dall’altro. Vinceva la gara chi in un tempo determinato riusciva a ripulire dalla brina la maggior quantità di rami.
Spesso nascevano delle dispute perché c’era chi, come Danilo, non puliva bene i rami, per fare più in fretta. Per questo motivo decidemmo che, ai fini della classifica, sarebbero stati conteggiati solo i rami perfettamente puliti. Questo gioco però non era possibile farlo tutti gli anni, perché ogni altro inverno i nostri genitori i scalvava.
Prendevano una scaletta di legno e la appoggiavano al tronco o a qualche grosso ramo; usavano el stegàgno. Si facevano largo tra i rami usando el stegàgno de costa e de taio ; il pennato lo tenevano tacà a l’anzìn , dietro la schiena, che pendeva sul sedere. Legavano la pièra , lateralmente alla cintura. Tagliavano ad uno ad uno tutti i rami dei salici, facendo saltare in aria con maestrìa piccole scaglie. -
Métete piassè in là - mi diceva mio padre quando andavo sul stradon a guardare il taglio dei rami. L’è pericoloso; se te riva ‘na schegia in t’un ocio, la te lo porta via.
Stendevano i rami a terra lungo el stradon, lasciando uno stretto passaggio per le biciclette. Poi li caricavano su un carro o sul rimorchio e li portavano sull’aia di mattoni, già coperta con le piante del granoturco e con le radici, i scataròni, per proteggerla dalle gelate. Qui, un po’ alla volta, facevano la punta ai pali col stegagno de taio sopra ‘na zòca , e quindi, con un coltello curvo, gli uomini e le donne toglievano la scorza e sistemavano in mucchi diversi i pali di spessore più grosso e quelli più fini. I primi servivano come sostegno per i filari delle viti coltivate a spalliera; i secondi come tutori per le piante di fagiolo o di piselli rampicanti.
(disegno di Luigi)
QUANDO I SCALVAVA ( Il nonno racconta...)
El stradon delle Barolde era bellissimo: si distendeva sulla campagna come un serpente, sopra elevato rispetto ai campi di tre o quattro metri, e diviso da essi da due fossati pieni, durante l’estate, dell’acqua proveniente dall’Adige; due verdi filari di salici ai lati arrivavano fin quasi dentro la corte.
D’estate la loro ombra era provvidenziale; i rami a ventaglio lasciavano filtrare la luce ma non il calore asfissiante del sole; d’inverno i filari coperti di brina destavano meraviglia.
Noi bambini ammiravamo lo straordinario spettacolo.
Quando i grandi erano o in casa o al lavoro nella càmara marangon, prendevamo di nascosto sull’aia una pertica ciascuno e andavamo sullo stradon a sbattere la brina. Se eravamo in due ci mettevamo uno sul filare di destra e l’altro su quello di sinistra. Se eravamo in quattro, due stavano davanti di una trentina di metri e due dietro, uno da un lato e l’altro dall’altro. Vinceva la gara chi in un tempo determinato riusciva a ripulire dalla brina la maggior quantità di rami.
Spesso nascevano delle dispute perché c’era chi, come Danilo, non puliva bene i rami, per fare più in fretta. Per questo motivo decidemmo che, ai fini della classifica, sarebbero stati conteggiati solo i rami perfettamente puliti. Questo gioco però non era possibile farlo tutti gli anni, perché ogni altro inverno i nostri genitori i scalvava.
Prendevano una scaletta di legno e la appoggiavano al tronco o a qualche grosso ramo; usavano el stegàgno. Si facevano largo tra i rami usando el stegàgno de costa e de taio ; il pennato lo tenevano tacà a l’anzìn , dietro la schiena, che pendeva sul sedere. Legavano la pièra , lateralmente alla cintura. Tagliavano ad uno ad uno tutti i rami dei salici, facendo saltare in aria con maestrìa piccole scaglie. -
Métete piassè in là - mi diceva mio padre quando andavo sul stradon a guardare il taglio dei rami. L’è pericoloso; se te riva ‘na schegia in t’un ocio, la te lo porta via.
Stendevano i rami a terra lungo el stradon, lasciando uno stretto passaggio per le biciclette. Poi li caricavano su un carro o sul rimorchio e li portavano sull’aia di mattoni, già coperta con le piante del granoturco e con le radici, i scataròni, per proteggerla dalle gelate. Qui, un po’ alla volta, facevano la punta ai pali col stegagno de taio sopra ‘na zòca , e quindi, con un coltello curvo, gli uomini e le donne toglievano la scorza e sistemavano in mucchi diversi i pali di spessore più grosso e quelli più fini. I primi servivano come sostegno per i filari delle viti coltivate a spalliera; i secondi come tutori per le piante di fagiolo o di piselli rampicanti.
(disegno di Luigi)
QUANDO I SCALVAVA ( Il nonno racconta...)
El stradon delle Barolde era bellissimo: si distendeva sulla campagna come un serpente, sopra elevato rispetto ai campi di tre o quattro metri, e diviso da essi da due fossati pieni, durante l’estate, dell’acqua proveniente dall’Adige; due verdi filari di salici ai lati arrivavano fin quasi dentro la corte.
D’estate la loro ombra era provvidenziale; i rami a ventaglio lasciavano filtrare la luce ma non il calore asfissiante del sole; d’inverno i filari coperti di brina destavano meraviglia.
Noi bambini ammiravamo lo straordinario spettacolo.
Quando i grandi erano o in casa o al lavoro nella càmara marangon, prendevamo di nascosto sull’aia una pertica ciascuno e andavamo sullo stradon a sbattere la brina. Se eravamo in due ci mettevamo uno sul filare di destra e l’altro su quello di sinistra. Se eravamo in quattro, due stavano davanti di una trentina di metri e due dietro, uno da un lato e l’altro dall’altro. Vinceva la gara chi in un tempo determinato riusciva a ripulire dalla brina la maggior quantità di rami.
Spesso nascevano delle dispute perché c’era chi, come Danilo, non puliva bene i rami, per fare più in fretta. Per questo motivo decidemmo che, ai fini della classifica, sarebbero stati conteggiati solo i rami perfettamente puliti. Questo gioco però non era possibile farlo tutti gli anni, perché ogni altro inverno i nostri genitori i scalvava.
Prendevano una scaletta di legno e la appoggiavano al tronco o a qualche grosso ramo; usavano el stegàgno. Si facevano largo tra i rami usando el stegàgno de costa e de taio ; il pennato lo tenevano tacà a l’anzìn , dietro la schiena, che pendeva sul sedere. Legavano la pièra , lateralmente alla cintura. Tagliavano ad uno ad uno tutti i rami dei salici, facendo saltare in aria con maestrìa piccole scaglie. -
Métete piassè in là - mi diceva mio padre quando andavo sul stradon a guardare il taglio dei rami. L’è pericoloso; se te riva ‘na schegia in t’un ocio, la te lo porta via.
Stendevano i rami a terra lungo el stradon, lasciando uno stretto passaggio per le biciclette. Poi li caricavano su un carro o sul rimorchio e li portavano sull’aia di mattoni, già coperta con le piante del granoturco e con le radici, i scataròni, per proteggerla dalle gelate. Qui, un po’ alla volta, facevano la punta ai pali col stegagno de taio sopra ‘na zòca , e quindi, con un coltello curvo, gli uomini e le donne toglievano la scorza e sistemavano in mucchi diversi i pali di spessore più grosso e quelli più fini. I primi servivano come sostegno per i filari delle viti coltivate a spalliera; i secondi come tutori per le piante di fagiolo o di piselli rampicanti.
(disegno di Luigi)
LA POLENTA, LA PANARA, LA STECA, EL FILO - Il nonno racconta alle nipotine...
Ogni sera la mamma, appena tramontato il sole, d’autunno e d’inverno, faceva la polenta nella ramìna, un grosso recipiente in rame.
A volte la appendeva al gancio della catena, a volte la metteva sul treppiede in ferro su la mare, a volte, soprattutto in epoca più recente, la appoggiava sulla stufa, dopo aver tolto tre o quattro anelli.
Menava, cioè girava il mestolo per circa tre quarti d’ora e stava ben attenta a no fare tuti gnochi, a non fare grumi.
Quando bolliva, prendeva la panàra, la tafferìa e la appoggiava alla parte esterna del focolare. Se mi avvicinavo troppo, mi diceva, alzando il tono della voce: ‘Tirete via, che no te pela’, ‘spostati, se non vuoi che ti levi la pelle’.
- Ma perché ti diceva così? Non era molto gentile.
- Dovete tener presente che la polenta poteva procurare delle scottature peggiori dell’acqua bollente, per cui era veramente pericolosa. Poi roersava, rovesciava, la polenta sulla panara; quindi prendeva la stecca , bagnava un po’ la polenta e dava dei colpetti di assestamento.
- Perché, nonno, bagnava la polenta?
- Perché così la polenta non si attaccava e nello stesso tempo la polenta diventava più lucida e quindi più bella. Poi era il momento in cui noi ragazzi ci lanciavamo verso la ramina.
- E perché?
- Perché volevamo staccare e mangiare la crosta, una ghiottoneria. Di solito, senza litigare facevamo a turno. A volte era difficile staccare la crosta; altre volte, invece, si staccavano dei pezzi molto grandi. E allora eravamo molto contenti. Ne davamo anche alla mamma e al papà, che ci guardavano sorridendo.
Quindi la panara veniva messa in mezzo alla tavola, si aspettava che si raffreddasse appena un po’, e la mamma cominciava a tagliarla con un filo di refe e a distribuire le fette. Mentre mangiavamo e pociàvino, la mamma tagliava i ori, gli orli della polenta e ci diceva: ‘Né pian che no ve tegno gnanca drìo’, ‘andate piano, perché non riesco a tenervi dietro’.
Se avanzava della polenta, la mamma la tagliava a fette e l’indomani sera le fette erano pronte per essere abbrustolite sulla gradèla, sulla graticola.
Uno dei giochi che ci piaceva fare col fuoco era quello di fare la rua, la ruota, accendendo la cima di un legnetto e poi facendolo girare nell’aria in modo da ottenere un cerchio. ‘Sta’ fermo col fogo’, lascia stare il fuoco, interveniva subito il papà ‘che no se scherza col fogo, che non si deve scherzare col fuoco’.
'E ‘no sta a ‘nadar fora col stizo, parché ciàpa fogo i scataroni sul zélese’, ‘non uscire di casa col legnetto acceso, perché possono prendere fuoco i pezzi delle piante di granoturco che coprono l’aia’
LA POLENTA, LA PANARA, LA STECA, EL FILO - Il nonno racconta alle nipotine...
Ogni sera la mamma, appena tramontato il sole, d’autunno e d’inverno, faceva la polenta nella ramìna, un grosso recipiente in rame.
A volte la appendeva al gancio della catena, a volte la metteva sul treppiede in ferro su la mare, a volte, soprattutto in epoca più recente, la appoggiava sulla stufa, dopo aver tolto tre o quattro anelli.
Menava, cioè girava il mestolo per circa tre quarti d’ora e stava ben attenta a no fare tuti gnochi, a non fare grumi.
Quando bolliva, prendeva la panàra, la tafferìa e la appoggiava alla parte esterna del focolare. Se mi avvicinavo troppo, mi diceva, alzando il tono della voce: ‘Tirete via, che no te pela’, ‘spostati, se non vuoi che ti levi la pelle’.
- Ma perché ti diceva così? Non era molto gentile.
- Dovete tener presente che la polenta poteva procurare delle scottature peggiori dell’acqua bollente, per cui era veramente pericolosa. Poi roersava, rovesciava, la polenta sulla panara; quindi prendeva la stecca , bagnava un po’ la polenta e dava dei colpetti di assestamento.
- Perché, nonno, bagnava la polenta?
- Perché così la polenta non si attaccava e nello stesso tempo la polenta diventava più lucida e quindi più bella. Poi era il momento in cui noi ragazzi ci lanciavamo verso la ramina.
- E perché?
- Perché volevamo staccare e mangiare la crosta, una ghiottoneria. Di solito, senza litigare facevamo a turno. A volte era difficile staccare la crosta; altre volte, invece, si staccavano dei pezzi molto grandi. E allora eravamo molto contenti. Ne davamo anche alla mamma e al papà, che ci guardavano sorridendo.
Quindi la panara veniva messa in mezzo alla tavola, si aspettava che si raffreddasse appena un po’, e la mamma cominciava a tagliarla con un filo di refe e a distribuire le fette. Mentre mangiavamo e pociàvino, la mamma tagliava i ori, gli orli della polenta e ci diceva: ‘Né pian che no ve tegno gnanca drìo’, ‘andate piano, perché non riesco a tenervi dietro’.
Se avanzava della polenta, la mamma la tagliava a fette e l’indomani sera le fette erano pronte per essere abbrustolite sulla gradèla, sulla graticola.
Uno dei giochi che ci piaceva fare col fuoco era quello di fare la rua, la ruota, accendendo la cima di un legnetto e poi facendolo girare nell’aria in modo da ottenere un cerchio. ‘Sta’ fermo col fogo’, lascia stare il fuoco, interveniva subito il papà ‘che no se scherza col fogo, che non si deve scherzare col fuoco’.
'E ‘no sta a ‘nadar fora col stizo, parché ciàpa fogo i scataroni sul zélese’, ‘non uscire di casa col legnetto acceso, perché possono prendere fuoco i pezzi delle piante di granoturco che coprono l’aia’
LA QUESTUA: Bruno il campanaro e Don Franco il parroco, alle
Barolde
- Nonno, ci racconti qualche altro episodio della tua infanzia di cui sia protagonista Bruno, il campanaro?
- Sì, nonno, è troppo simpatico!
- Adesso non siamo proprio nel periodo in cui si svolge la vicenda che ho in mente di raccontarvi, ma, se volete…
- Sì,… sì…
- Va bene. Nel periodo pasquale il prete faceva il giro di tutte le famiglie del paese per benedire le case e per raccogliere l’offerta per la chiesa. Cominciava le visite un mese prima della Pasqua e finiva dopo la festa.
Alle Barolde arrivava di solito dopo Pasqua, all’imbrunire, quando i lavori nei campi erano terminati. Scendeva dalla sua bici senza canna, una Bianchi nera, come fanno le donne, senza alzare la gamba destra sopra la sella, ma spostandola direttamente a terra a sinistra. Forse perché, ci dicevamo tra ragazzi, anche lui, avendo le sottane, aveva preso le abitudini da donna.
- Cosa, le sottane? Come le donne?
- Sì, ne avete visti anche voi, adesso, dei preti con la veste talare nera, con tutti quei bottoni davanti...
- Sì, sì, disse Margherita, anche la settimana scorsa, lì dai salesiani, nella via dove abitiamo noi...
- Il parroco, don Eugenio Franco (ma tutti noi lo chiamavamo don Franco), non veniva mai da solo, ma sempre assieme al campanaro, il sacrestano, Bruno, che voi avete già incontrato nella gita a Lugano. Noi ragazzi non volevamo mai mancare a questo incontro, perché Bruno ci era simpaticissimo: raccontava storie che ci facevano morire dal ridere, soprattutto quando era ben carburato.
- Cosa vuol dire carburato?
- Fra poco, vedrai, lo capirai da sola! Don Franco si sedeva a tavola voltando le spalle al fuoco del camino e Bruno si sedeva alla sua destra, appoggiando a terra due grosse sporte di carezza, di càrice intrecciata, foderate all’interno. Dentro c’èrano parecchie decine di uova, raccolte da altre famiglie durante il giro. ‘State qua a cena con noi?’, li invitava il papà. ‘Ma no, dobbiamo finire il giro’, rispondeva don Franco. ‘Ben, dai, don Franco, diceva Bruno, il giro l’abbiamo quasi finito, le sporte sono quasi piene...’ E così la mamma attaccava la ramìna alla catena del camino, prendeva la graticola, tre salami storti (adesso si usa chiamarli stortine), li tagliava a metà per la lunga e li posava sulla graticola. ‘Senti che profumìn, diceva Bruno. Qua alle Barolde abbiamo sempre mangiato dei salami speciali. Non come da *** , vera don Franco, che i ne slonga de chei saladi ranzi ‘che no li magna pì gnanca ‘l gato’, che ci allungano di quei salami che non li mangia più neanche il gatto, tanto son rancidi.
Mentre parlava, io apparecchiavo la tavola; prendevo due bicchieri, quelli più grandi, li mettevo sulla tavola, andavo sotto scala a prendere un bottiglione di vino rosso (‘il merlot’, mi raccomandava il papà) e riempivo i bicchieri degli ospiti. ‘Questo è un nettare, diceva Bruno, senti che abboccato, no come la graspìa che gh’émo beù, che abbiamo bevuto ieri, vera don Franco?’
- Ma anche il prete beveva vino?
- Sì, gli piaceva molto, e tutti lo ritenevano un grande intenditore. Aveva amici in Valpolicella che gli procuravano il vino per tutto l’anno, anche per le messe. Quando il bicchiere calava io ero pronto a riempirlo di nuovo. E questa operazione la ripetevo spesso. Durante la cena Bruno si scatenava. Raccontava barzellette, aneddoti, prendeva in giro questo e quello. E don Franco, con le mani incrociate sulla grossa pancia sorrideva beato, girando i pollici.
Ad un certo punto mio fratello chiese a Bruno: ‘E quest’anno, come va la questua?’
‘Non c’è male. Se tutti ne dessero come alle Barolde, allora sì si potrebbe essere contenti. In genere, però, ti danno poche uova. Il numero lo fai facendo tante famiglie. Don Franco, racconti, qua, quello che ci è capitato l’altro giorno dalla signora ***, che si dà arie di essere la più siora del paese’.
‘Racconta tu, dai, Bruno!’.
‘Sì, racconto, racconto, o meglio, fa finta di metterle dentro, e con una rapidità da prestigiatore prende dalla sporta tre uova e se le mette in tasca. Mai vista ‘na roba’ del genere. Don Franco, che non aveva visto quello che era successo, disse: ‘Grazie signora, che Dio la benedica’, vera, don Franco, che ha detto così? E lei: ‘Oh, niente, quello che si fa lo si fa col cuore!’. Io, che ho assistito a tutta la scena, mi mordo le labbra per non parlare, ma non resisto: ‘Eh, il Signore vede sempre dall’alto i cuori di tutti gli uomini, e anche delle donne, vera don Franco? ‘Deus videt omnia! E ricompensa sempre con la stessa moneta i generosi’. Ma l’èra un discorso massa fin, troppo fine: non credo l’abbia capito’. Da questo punto in poi sia don Franco che Bruno, quanto più bevevano, tanto più infarcirono i loro discorsi con citazioni latine.
- Conoscevano il latino?
- I preti studiavano per molti anni il latino, per otto anni, più quattro di teologia; Bruno, come avete avuto già modo di sa-pere, aveva frequentato le prime tre classi del ginnasio, cioè le attuali tre medie, dove allora si studiava il latino, e molti brani venivano imparati a memoria. E Bruno aveva una memoria eccezionale. Alla fine, il prete e il campanaro non riuscivano più ad alzarsi in piedi.
‘Se volete c’è un letto anche per voi, qua. E’ meglio che rimaniate, che non vi succeda qualcosa per la strada’, disse il papà.
Mi sembrava di non aver colto lo stesso entusiasmo da parte della mamma, che probabilmente aveva soggezione del prete, da sempre considerato una delle persone più importanti del paese, assieme alla levatrice e alla maestra. Ma entrambi rifiutarono l’offerta.
‘No, no, stemo in pié, stemo in pié, ci reggiamo in piedi’, disse Bruno barcollando con in mano le due sporte, ormai strapiene di uova dopo l’offerta dei miei.
Arrivarono alle biciclette. Bruno appese al manubrio, una a destra e l’altra a sinistra, le due sporte e, sia pure con una certa difficoltà, partì assieme a don Franco.
Era una serata mite; la luna era parzialmente coperta dalle nubi.
Il mattino dopo, saranno state le sette, sentii il papà che chiamava la mamma, nella sala sotto la mia camera da letto: ‘Vieni, Olga; lì alla òlta, alla curva, ci sono don Franco e Bruno dentro il fosso. ‘
Come mai? Ci sono caduti dentro? A quest’ora? Sono lì da ieri sera?’.
‘Non so cosa sia successo, adesso vado a vedere’. Saltai immediatamente giù dal letto, insieme a mio fratello, indossammo velocemente pantaloni, maglietta e maglioncino e via di corsa fino alla òlta, davanti alla casa dello zio Silvio.
Lì c’era già un capannello di persone che guardava don Franco e Bruno dentro il fosso che cercavano qualcosa. Non c’era acqua. Si vedevano gusci di uova dappertutto e, qua e là i tuorli che facevano capolino tra l’erba.
‘Ma cos’è successo, don Franco?’, chiese mio padre. ‘ 'Stiamo cercando il crocifisso e l’aspersorio che abbiamo perso ieri sera tornando a casa’.
‘ E quei gusci lì?’.
‘Eh, appunto, disse Bruno, ieri sera, tornando dalle Barolde, qui in curva la mia bicicletta è scivolata sulla ghiaia. Ve l’ho detto tante volte che ne mettete troppa sulla strada: alle Barolde c’è abbondanza di tutto, anche di ghiaia. Ho toccato i pedali della bici di don Franco e tutti e due siamo finiti dentro’.
‘ Nel fosso?’.
‘Sì, proprio nel fosso’.
‘ Vi siete fatti male?’.
‘No, solo qualche graffio’, continuò Bruno mentre prendeva in mano un crocifisso pieno d’erba, reso dorato dal giallo delle uova.
'Eccolo, finalmente! Come diàolo gàlo fato come diavolo ha fatto a finire lì? Ieri sera, quando siamo riusciti a risalire dal fosso, abbiamo provato a recuperare uova, crocifisso e asperso-rio. Io ho attaccato la dinamo. Sollevavo la ruota davanti della bicicletta mentre don Franco la girava con la mano per far luce. Abbiamo recuperato qualche uovo, ma alle Barolde c’era la nebbia, vera don Franco?, e alla fine abbiamo deciso di rientrare in paese e di ritornare questa mattina all’alba, quando si sarebbe rischiarato sia il giorno che il resto. Ecce homines: ecco qua gli uomini che ritornano sul luogo del delitto!’, disse con enfasi.
Intanto il mio papà, che era sceso nel fosso, aveva trovato anche l’aspersorio.
'Meno male, disse don Franco, a questo tenevo moltissimo: è d’argento antico e avevo paura che lo trovasse qualcun altro...’.
‘Timeo Danaos et dona ferentes’, disse Bruno, appiccicando lì a tutti i costi la citazione latina che a lui era sempre piaciuta, anche se in questo caso non c’entrava per niente.
- Cosa significava quella frase?
- Temo i Greci anche quando (o proprio quando) portano i doni. Vedete che la citazione era fuori posto.
‘Venite in corte da noi, disse mio padre, prima di tornare in paese’. Così quel giorno Bruno e don Franco rientrarono in canonica con il carico completo di uova, come se niente fosse successo.
- Nonno, ma è proprio vero questo episodio, o lo hai infiorato tu per renderlo più gustoso?
- Vi assicuro che le cose sono andate proprio così. Anzi, ho dimenticato tanti particolari del dialogo che erano davvero esilaranti.