sabato 13 febbraio 2021

VERONA: LA BIBLIOTECA CAPITOLARE

 Foto di Luigi Bologna, 

Parte I^


La biblioteca capitolare di Verona è la più antica biblioteca nel mondo occidentale in funzione ancor oggi.



All'inizio era uno scriptorium, dove venivano prodotti libri su pergamena. 


Gli scrittori amanuensi erano i monaci del Capitolo. Di qui il nome di capitolare.

Uno di questi monaci, Ursicino, dopo aver trascritto la Vita di San Martino e di San Paolo di Tebe, alla conclusione del codice, aggiunge il proprio nome e la data: le calende di agosto dell'anno di consolato di Agapito, dunque il 517 d.C., quando Teodorico, Re dei Goti, reggeva Verona.

Si possono vedere due pagine del Codice di Ursicino

                 Ursicino firma e mete la data sul codice da lui trascritto

             La trascrizione in caratteri leggibili della firma e data di Ursicino

 Tuttavia la presenza di codici ancora più antichi, ad esempio il De Civitate Dei di Agostino e le Institutiones di Gaio (unico al mondo), fanno risalire la fondazione della biblioteca almeno al secolo precedente.
    Le Institutiones di Gaio

Durante la rinascita carolingia,  l'Arcidiacono Pacifico diede forte impulso allo Scriptorium, che arrivò a comporre  218 volumi, in un'epoca in cui un numero molto minore di volumi era già sufficiente per formare una ricca biblioteca.


Verso l'inizio del XIII secolo lo Scriptorium cominciò ad assumere il carattere di una vera e propria biblioteca,

Nel 1320 venne  invitato Dante Alighieri dal Capitolo della Cattedrale (e quindi dalla biblioteca) a tentere la famigerata orazione latina Quaestio de aqua et terra, svoltasi nella chiesa canonicale di Sant'Elena, mentre nel 1345 Francesco Petrarca venne invitato , a consultare i volumi della Capitolare, dove scoprì un codice a lui sconosciuto e purtroppo successivamente scomparso, le lettere di Cicerone ad Attico, Quinto e Bruto


GIOCHI DI UNA VOLTA: LA COSTRUZIONE DI UN PICCOLO 'CARROARMATO'


LA COSTRUZIONE DEL 'CARRARMATO'
Era uno dei più bei giochi, in primo luogo perché il giocattolo lo costruivamo noi bambini con materiali di recupero (rocchetti già usati, cera di candela, elastico ricavato da vecchie camere d'aria di bici, legnetti...); in secondo luogo perché ci dava la possibilità di gareggiare con i coetanei (su un percorso prefissato qual era il carro armato più forte?); in terzo luogo questo gioco dava la possibilità di numerosi 'incidenti' e varianti (percorso in piano, su sabbia, in salita; rottura e sostituzione della cera o dell'elastico; scivolamenti all'indietro del carrarmato, ecc.
Nella sequenza dei disegni qui sotto si possono vedere le modalità di costruzione (se ne può insegnare la costruzione ai nipotini...)

MATERIALI NECESSARI:
Un rocchetto di legno (vuoto)
un coltellino per fare le 'tacche' sul rocchetto
Un elastico resistente non tanto lungo)
Un pezzetto di cera di candela
due legnetti

PROCEDURA:















giovedì 11 febbraio 2021

VERONA: LA BASILICA DI SAN ZENO: L'ESTERNO



 

LA BASILICA DI SAN ZENO: L'ESTERNO


E' un capolavoro dell'architettura romanica. In origine era un'abbazia benedettina.

A sinistra della facciata si leva l'imponente torre merlata con il chiostro e i resti dell'antico monastero
soppresso nel 1773.
A destra svetta il campanile, alto 72 metri, iniziato nel 1075 e ultimato nel secolo successivo, caratterizzato dall'alternanza di fasce in mattoni e tufo tipica del romanico veronese.



La piazza è da secoli teatro del "Bacanal del Gnoco", antica festa popolare ancora oggi rievocata l'ultimo venerdì di carnevale. L'attuale edificio risale al XII secolo e corrisponde alla terza fase costruttiva della basilica.
E' molto probabile che esistesse in epoca paleocristiana (IV-V secolo) un sacello edificato sulla tomba di San Zeno. Il sacello fu poi sostituito, per volontà di Pipino, figlio di Carlo Magno, dal monastero benedettino all'inizio del IX secolo.
La chiesa fu radicalmente ricostruita nelle attuali forme romaniche dopo il terribile terremoto del 1117.


La facciata in tufo veronese ha due spioventi e si conclude con un timpano. Due lesene a sezione triangolare segnano la divisione interna tra la navata centrale e le laterali, mentre tutta la superficie è scandita da numerose lesene minori, archetti e bifore.


Fulcro compositivo della facciata è il grande rosone
raggiato , chiamato "ruota della fortuna" e realizzato dal maestro Brioloto, che è il progettista dell'intera facciata. Il rosone, opera di Brioloto de Balneo, è decorato da sei statue che raffigurano le alterne fasi della vita umana, ovvero della Fortuna (nel senso latino di "destino") e per questo è conosciuta come "Ruota della Fortuna".
Il rosone è diviso in dodici settori da altrettante paia di colonnette di marmo rosso a fusto esagonale, ornate da capitelli a foglie e a figure animalesche.
Al centro vi è un cerchio, internamente aperto e coronato di dodici lobi, mentre altrettanti lobi maggiori collegano i capitelli.
Esternamente è circondato da una ghiera a tre gradini in marmo, terminante in una cornice in pietra che serve da raccordo col piano delle lesene.
Nell'ultimo gradino in marmo si trovano disposte sei figure scolpite in marmo greco rappresentanti i mutamenti del destino dovuti alla Fortuna: le due centrali, in alto e in basso, rappresentano rispettivamente i momenti della maggior fortuna e del suo massimo abbandono, mentre quelle laterali i passaggi intermedi, ovvero a destra il passaggio dalla felicità alla miseria e a sinistra il ritorno allo stato di fortuna.
Sul mozzo della Ruota gira una scritta che spiega il concetto simbolico:
En ego fortuna moderor mortalibus una, Elevo, depono, bona cunctis vel mala dono Induo nudatos, denudo veste paratos. In me confidit si quis, derisus abibit. »
« Ecco, solo io Fortuna, governo i mortali; elevo, depongo, dono a tutti i beni ed i mali; vesto chi è nudo, spoglio chi è vestito. Se qualcuno confida in me, se ne andrà deriso »


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mercoledì 10 febbraio 2021

LAVORI DI UN TEMPO: iL TAGLIO DEI RAMI DI SALICE

 


IL TAGLIO DEI RAMI DEI SALICI

(disegni di Luigi Bologna)

Una delle attività dei contadini durante la stagione invernale era quella del taglio dei rami dei salici. I salici venivano piantati lungo i fossati o lungo le capezzagne. Servivano a rinforzare le rive del fosso  e  fornivano i pali per sostenere le viti. 


Con la scala ( o lo scalone) salivano sul salice e col pennato (in dialetto veronese "stegagno") tagliavano i rami. Questi, poi, venivano caricati su un carro agricolo e portati nella corte e accastastati ordinatamente. Quindi con una coltellina uomini e donne toglievano la "scorza" (corteccia), che veniva data alle mucche e ai buoi e le pertiche venivano usate come sostegno per le viti.

Sul tronco nudo del salice in primavera, cominciavano a ricrescere i rami, fino al taglio dell'inverno successivo


Ogni altro inverno i nostri genitori i scalvava.[1]  
     Prendevano una scaletta di legno e la appoggiavano al tronco o a qualche grosso ramo; usavano el stegàgno.[2] Si facevano largo tra i rami  usando el stegàgno de costa e de taio[3]; il pennato lo tenevano tacà a l’anzìn[4], dietro la schiena, che pendeva sul sedere.  Legavano la pièra[5], lateralmente alla cintura. Tagliavano ad uno ad uno tutti i rami dei salici, facendo saltare in aria con maestrìa  piccole scaglie.                                            - Métete piassè in là - mi diceva mio padre quando andavo sul stradon a guardare il taglio dei rami. L’è pericoloso; se te riva ‘na schegia in t’un ocio, la te lo porta via.[6]               Stendevano i rami a terra lungo el stradon, lasciando uno stretto passaggio per le biciclette. Poi li caricavano su un carro o sul rimorchio e li portavano sull’aia di mattoni, già coperta con le piante del granoturco e con le  radici, i scataròni, per proteggerla dalle gelate. 
        Qui, un po’ alla volta, facevano la punta ai pali col stegagno de taio sopra ‘na zòca[7], e quindi, con un coltello curvo, gli uomini e le donne toglievano la scorza  e sistemavano in mucchi diversi i pali di spessore più grosso e quelli più fini. I primi servivano come sostegno per i filari delle viti coltivate a spalliera; i secondi come tutori per le piante di fagiuolo o di piselli rampicanti.

 



[1]Tagliavano e potavano i rami dei salgàri

[2] Il pennato

[3] Di taglio e di penna

[4]  Attaccato ad un doppio uncino

[5] La cote per affilare la lama

[6]  - Sta’ più in là, spostati...  E’ pericoloso; se una scheggia ti arriva su un occhio te lo porta via.

[7] Un ceppo.


VERONA: I DISEGNI MIEI E DI MARISA LONARDI RELATIVI A VERONA

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